Bisogna dirlo: il referendum che ha per oggetto la riduzione del numero dei parlamentari sarà in realtà una consultazione per capire se gli italiani vorranno ancora vivere in una democrazia parlamentare che nasce dal consenso popolare o se accettano di consegnare l’Italia a mani oligarchiche.
A piccoli passi da qualche lustro stiamo camminando verso l’eliminazione del Parlamento e la vittoria del SÌ il 21 settembre sarebbe una nuova ferita alla sovranità popolare che proprio nei Parlamenti trova espressione. Per percorrere questo sentiero eversivo sono state usate raffinate tattiche comunicative creando sentimenti sempre più repulsivi di tutto ciò che odora di aula parlamentare.
Deputati e senatori sono stati dipinti come una casta viziosa invece che come rappresentanza popolare. Le Camere? Un vaso Pandora da cui prendere le distanze. Si è spiegato che l’istituzione è costosa e val la pena di sforbiciarla prima nei bilanci e poi nell’organico. Si sono messi alla berlina i modi e i tempi del suo funzionamento, fino a fare balenare che la democrazia parlamentare è poco o affatto compatibile con il mondo di oggi, così rapido nelle sue dinamiche.
Tutte le suggestioni mediatiche sono state messe in campo: inutilità del bicameralismo, blindatura dei tempi di dibattito, progressivo trasferimento del processo legislativo in mera ratifica degli atti prodotti dal governo, leggi di bilancio trasformate in maxi emendamenti presentati all’ultimo giorno, ricorso sistematico al voto di fiducia che annulla ogni discussione sul merito delle leggi. Si è così resa accettabile al corpo elettorale una colossale menzogna: il Parlamento è poco utile e forse si potrebbe imparare a farne a meno.
In sostanza si è detto: il mondo corre in fretta il Parlamento è una tartaruga. Ma la velocità decisionale come rimedio alla perdita di ruolo della politica è una pericolosa illusione. Ha come esito l’uscita dal contesto democratico e finisce per secondare il danno che vorrebbe evitare: la subordinazione delle norme che regolano la vita della comunità nazionale alla convenienza del vettore sociale più forte e potente. L’assioma implicito in questa deriva di sistema è il seguente: se l’economia corre sempre più veloce, per stare al suo passo la politica riduca i tempi implicati nella vita politica a matrice democratica e parlamentare.
Ancora. Se nel contesto globalizzato l’esercizio del potere, sia oligarchico sia dittatoriale, produce in altre nazioni decisioni più rapide, non resta che adeguarsi alla prospettiva di ridurre la democrazia partecipativa, perfino non disdegnando l’idea di ritornare all’uomo solo al comando.
Quest’ansia distruttiva della storia delle nostre Costituzioni dura, con un crescente e rapsodico incalzare, da ormai trent’anni. Non riguarda solo la nostra nazione ma scuote tutte le società occidentali. Nei due secoli di storia che abbiamo alle spalle, da De Tocqueville al Novecento, la rotta del potere politico era orientata a ricercare forme di governo basate su ampia e diretta partecipazione dei cittadini. Le architetture parlamentari, nelle diverse forme che troviamo nelle varie Costituzioni di queste nazioni, hanno tutte fondamento in questo principio.
Verso la fine del Novecento è iniziata la regressione verso forme oligarchiche e presidenzialiste. Possiamo così riassumere questa deriva: meno Parlamento e più Governo. Si tratta di un mantra ripetuto fino alla noia che ne veste un altro praticato ma non detto, perché non politically correct: per governare la democrazia è un intralcio.
Tutti ricordiamo qualche lustro fa la boutade della trasformazione del Parlamento in una sorta di consiglio di amministrazione dove – rimosso il costituzionale “senza vincolo di mandato” – ogni capogruppo vota per tutti gli eletti del suo partito come titolare della quota azionaria determinata dall’esito elettorale.
Il primo passo che aprì la strada verso la marginalizzazione del Parlamento fu l’eliminazione delle preferenze. Salutata come il vaccino contro la mala politica era invece l’inizio della rottura del rapporto tra eletto ed elettore.
La legge elettorale nata con la Repubblica Italiana era durata per quasi mezzo secolo. Da quel 1991 in poi un susseguirsi di modifiche ha sempre più ampliato questa frattura. Mattarellum, Porcellum, Italicum, Consultellum, collegi uninominali, liste bloccate, listini di salvaguardia, algoritmi di calcolo per la ripartizione degli eletti: ogni alchimia del sistema di voto è stata di volta in volta predisposta e presentata a un elettorato, sempre più confuso e assente, come soluzione utile a garantire la governabilità. Le modifiche alla legge, sempre predisposte nell’imminenza di una tornata di elezioni politiche nella ricerca di garantire vantaggio alla maggioranza uscente, erano annunciate come rimedi per un rapido insediamento dell’esecutivo e promettevano la stabilità dei governi. I fatti hanno dimostrato il contrario. Nessuno dei sistemi di volta in volta mutati ha garantito stabilità e rapidità.
Al contrario, il ricorso al cambiamento della legge elettorale si è fatto sempre più frequente. Nel frattempo, il ritardo decisionale rispetto all’incalzare della rivoluzione tecnologica digitale non è stato recuperato e in presenza della globalizzazione della produzione e dei consumi, l’economia, in crescente debito di solide basi di lavoro, ha ceduto il passo alle dinamiche anarchiche della finanza e alle sue crisi.
Incapace di guidare i processi e di indicare un diverso orizzonte alla comunità a lei affidata, la politica – come la Croce Rossa in tempo di calamità – si è rassegnata a svolgere il compito di curare i crescenti danni sociali. Missione impossibile in queste condizioni, perché senza una guida politica sicura e democratica la società lascia spazio all’anarchia del più forte e i danni sociali anziché trovare rimedio aumentano. Bonus, sussidi sociali, distorsioni fiscali, mancata rivalutazione delle pensioni dominano la scena degli anni recenti.
Anche per questo le segreterie di partito e i crescenti sussulti movimentisti hanno finito per operare a garanzia di oligarchie, di comitati, di gruppi elettorali di vecchia e nuova creazione. Si è trattato di una rassegnata ginnastica di autoconservazione testimoniata dal frenetico cambio dei simboli sulle schede elettorali, da ripetute modifiche dei nomi dei partiti tradizionali e della comparsa di movimenti destinati a durare lo spazio di un mattino.
Infine, alla disordinata riforma dei sistemi elettorali si è accompagnata la teoria che se la chirurgia elettorale non basta si sarebbe dovuto mettere mano alla Costituzione.
Una tesi inventata scaricando sulla “vecchia” Costituzione il fallimento riformatore. Acrobazie di coalizione, alleanze spesso disomogenee e contraddittorie, liste di comodo, desistenze, specchietti per allodole: in un evidente paradosso, questi ludici esercizi elettorali hanno prodotto il contrario di quel che fin dal primo sventurato passo promosso da Mario Segni nel 1991 si profetizzava come risanatore alla mai del tutto decifrata stagione di Mani Pulite grazie alla riduzione del numero, del ruolo dei partiti e la semplificazione dei gruppi politici in Parlamento.
Partiti, movimenti politico elettorali e gruppi parlamentari non sono mai stati così numerosi come nelle ultime due legislature. Non potendone nascere all’infinito perché i regolamenti delle Camere fissano dei numeri minimi per la loro formazione, gli aderenti al Gruppo misto sono aumentati in modo abnorme e al suo interno sono nati, accentando la “piccola” e necessaria ipocrisia, sottogruppi di diverso orientamento.
Ora siamo al Referendum Costituzionale. Se vincerà il SI, dal taglio del numero dei parlamentari non scaturirà alcuna nuova energia per l’Italia. Per il bilancio dello Stato il risparmio è irrisorio. Si è calcolato un caffè all’anno per ogni cittadino: nulla. Nulla anche per i tempi dei lavori parlamentari. Calerà invece la rappresentanza dei cittadini nelle istituzioni. Ed è questo, credo, il vero esito cui condurrà chi propaganda il SI al referendum.
Inseguire il cambiamento tecnologico ed economico sul suo terreno assomiglia tanto al paradosso della tartaruga e del pieveloce Achille. Corri, corri tartaruga, Achille non lo prenderai mai.
Non è questa la corsa della politica. In democrazia, la politica vive, con i tempi e i costi necessari, della forza del suo Parlamento. E la forza del Parlamento sta nel suo essere adeguata espressione del corpo elettorale. Per restare in democrazia, non serve meno ma più Parlamento. Non meno ma più rapporto e relazione tra elettori ed eletti. Votare NO non azzera l’affanno della politica italiana. Ma è un voto per la riduzione del danno. E per rifiutare la suggestione dell’uomo solo al comando.
Gian Guido Folloni
Politico e giornalista, già ministro per i rapporti con il Parlamento