Opinione

I dubbi della Bce sul taglio dei tassi d’interesse

Dopo il taglio di giugno, a Francoforte si torna a parlare di una prossima riduzione dei tassi di interesse.

Benché il consensus sia orientato verso la necessità di allentamento delle politiche monetarie e di un ritorno dei tassi di riferimento a un livello sensibilmente più basso per evitare ripercussioni sui mercati più elastici a questo parametro, come quello immobiliare e del credito in generale per intenderci, in seno alla BCE i dubbi sulla reale opportunità di un ammorbidimento non sarebbero pochi.

Già la decisione del mese scorso non fu pacifica, in seno al board diversi membri espressero la loro contrarietà poiché i dati sul rallentamento dell’inflazione non erano univoci e fu solo su input del dell’economista capo della Banca Centrale, Philip Lane, che si giunse al primo passo per un ritorno a un livello del costo del denaro che possa essere considerato il più possibile neutro.

Alcuni parlano di “scelta politica” quando, in realtà, l’analisi di base rispecchia le reali necessità del mercato anche perché, come più volte illustrato su queste pagine, lo shock dei prezzi subìto tra la fine del 2022 e l’inizio del 2023 dall’economia continentale non fu, propriamente, dovuto all’inflazione ma a un rialzo delle quotazioni di alcuni asset, tra cui energia e materie prime, avvenuto sui mercati finanziari mentre l’inflazione, come indicava Milton Friedman, è “sempre e comunque un fenomeno monetario nel senso che è e può soltanto esser prodotto da un aumento più rapido della quantità di moneta che della produzione”.

Che vuol dire? Semplicemente che l’inflazione, come tutti gli altri fenomeni economici, si forma su un mercato per un disequilibrio tra domanda e offerta, in questo caso si parla del mercato valutario: in pratica se l’offerta di moneta fosse più elevata della sua domanda si avrebbe un deprezzamento di questa e il conseguente innalzamento del tasso d’inflazione, viceversa si assisterebbe a un fenomeno deflattivo.

Questo significa che se l’offerta crescesse (o decrescesse) seguendo le stesse dinamiche della domanda l’inflazione tenderebbe a zero, indipendentemente dal livello dei prezzi che, invece, si muoverebbe secondo le dinamiche del mercato di riferimento potendo contare su una politica monetaria che, tendenzialmente, non lo andrebbe a influenzare.

In Europa, volendo vedere, si è avuto un caso particolare, dopo la crisi dei primi anni ‘10 che portò a una politica monetaria molto espansiva che si è vista soprattutto durante il mandato di Mario Draghi come Governatore della BCE ed è continuata, probabilmente per inerzia, anche nei primi anni dell’attuale mandato di Christine Lagarde quando, progressivamente, si sarebbe dovuto uscire dal periodo dei tassi negativi che hanno caratterizzato il decennio precedente per arrivare a una “normalizzazione” dell’offerta di moneta poiché il mercato aveva dimostrato una perfetta reattività all’azione della Banca Centrale.

Invece così non fu. Fino allo scorso anno, complice l’assorbimento quasi competo dell’offerta di moneta da parte della domanda si è preferito non modificare lo status quo per, poi, correre per far fronte a uno shock dei prezzi che si è palesato nell’H2 2022 dopo un primo, fisiologico, riscaldamento di questi durante la ripresa post-pandemica.

Da lì si è visto un inasprimento, goffo e sempre di reazione agli eventi, della politica monetaria per contrastare questa crescita dei prezzi che, però, si è riassorbita in pochi mesi per via del ritorno a quotazioni in linea con le medie passate dell’energia, delle materie prime e della logistica.

Vero è che oltre oceano si è seguita una linea simile, anzi più dura ancora, ma la FED si è trovata a dover fronteggiare non solo il rialzo dei prezzi sui mercati come in Europa (che comunque è molto più sensibile a queste variazioni dipendendo massicciamente dai mercati internazionali per l’approvvigionamento) ma anche una reale crescita dell’inflazione dovuta alle politiche espansive e di sostegno ai redditi volute dal governo Biden.

Perché, però, un professionista serio come Fabio Panetta, il Governatore della Banca d’Italia, oggi si sbilancia indicando che, nonostante le continue perplessità di alcuni membri del board della BCE, il taglio dei tassi continuerà?

Da un lato perché questo è quanto si aspettano i mercati, cosa che si può vedere anche dall’offerta dei mutui immobiliari che, oggi, propone l’accensione a tasso fisso fino al 2,89% quando il tasso di riferimento della banca centrale è, oggi, di quasi un punto e mezzo percentuale superiore e dall’altro perché negli USA si è arrivati ad annunciare un cospicuo taglio del tasso FED entro tempi brevi.

Contrariamente a quanto accade nel Vecchio Continente, dove Christine Lagarde sembra la “signora Tentenna”, incapace di prendere una vera posizione sulla questione, il presidente della FED, Jerome Powell, ha dichiarato senza possibilità di fraintendimento che “i prezzi elevati non sono l’unico rischio che dobbiamo affrontare […] Ridurre la politica restrittiva troppo tardi o troppo poco potrebbe indebolire indebitamente l’attività economica e l’occupazione”.

È evidente che i timori di una possibile recessione dovuta al credit crunch conseguente a una politica monetaria troppo restrittiva sia uno dei punti più importanti che il board della FED stia valutando per tornare a un livello dei tassi più moderato e, credibilmente, efficiente.

Posizione ben diversa da quella dei vertici di Francoforte che, anzi, solo lo scorso anno dichiararono che una recessione sarebbe stata accettabile per scongiurare il pericolo di un’inflazione elevata e di lunga durata, mostrando lo scollamento dei rappresentanti delle banche nazionali che compongono il board con le reali necessità del sistema economico continentale, più preoccupati di salvaguardare un caveat ideologico che la stabilità del sistema stesso.

Da qui la riduzione simbolica di un quarto di punto del tasso di riferimento che è stata, quasi, ignorato dai mercati per la sua, relativa, insussistenza.

Ora, però, lo scenario cambia bruscamente per l’annuncio di una riduzione futura e, credibilmente, cospicua, dei tassi USA a fronte dei rischi di recessione che stanno soffiando come un vento oltreoceano.

Ora, però, l’economia europea, azzoppata dalla stretta creditizia negli ultimi mesi, farebbe fatica a sopportare un apprezzamento dell’euro rispetto al dollaro in caso di un’inversione di rotta della politica monetaria della FED e da qui la discussione su nuovi tagli, probabilmente più corposi dell’ultimo, comincia a infervorarsi.

Ma basterà? La risposta è, ovviamente, no. Un abbassamento dei tassi è, oggi, condizione necessaria ma non sufficiente per garantire un ritorno a un circolo virtuoso di crescita sostenibile, l’azione normativa dell’UE, infatti, negli ultimi anni si è rivolta a piani pluriennali di stampo completamente ideologico e non supportati né da risorse finanziarie sufficienti né da una base tecnologica abbastanza avanzata da poter raggiungere i risultati che si siano programmati.

Mentre è innegabile che un’agenda ecologicamente sostenibile sia necessaria nella progettazione delle politiche economiche future, passando per una razionalizzazione dei rifiuti e degli scarti e una continua riduzione elle emissioni inquinanti, così non lo è la direzione che certe componenti, finora pesanti, del quadro di governo hanno voluto fissare.

Lo sviluppo del Continente passa per una riduzione del costo delle istituzioni e, come conseguenza, con più risorse “nelle tasche” dei contribuenti e per progetti pragmatici e non meramente di manifesto, come potrebbe essere la normativa sulle “case green” o sull’abbandono dei motori a idrocarburi che devono essere inseriti come obiettivo ma senza alcuna imposizione dall’altro e perseguendo un percorso di incentivazione.

In pratica all’Unione serve una visione meno miope e più aderente alla realtà, sia in politica monetaria da parte della Banca Centrale sia dal lato delle politiche economiche comunitarie; una sfida, questa, che vedremo se sarà raccolta sia dalla futura Commissione che si insedierà nei prossimi mesi sia dai vertici della BCE.

Matteo Gianola

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