“Capitalismo e comunismo sono convergenti”. A dire no ad entrambi i sistemi fu, il 24 marzo 1987, il Papa passato alla storia per aver contribuito in maniera determinante ad abbattere il muro di Berlino. «Né capitalismo né comunismo», disse Giovanni Paolo II parlando dell’enciclica “Populorum progressio” di Paolo VI. “Sono due sistemi che si dividono il mondo, sembrano diversi, ma in fondo tutti e due vedono soltanto il potere economico”. Per questo, aggiunse Karol Wojtyla due anni prima della fine della Guerra fredda, “le drammatiche divisioni di oggi non sono soltanto quelle ideologiche tra Est e Ovest, ma anche quelle di ricchezza e miseria tra Nord e Sud”.
Giovanni Paolo II stava commemorando il 20° anniversario dell’enciclica di papa Montini, ma stava anche prefigurando l’accelerazione che da lì a poco la storia mondiale avrebbe vissuto. Non a caso Giovanni Paolo II, figlio della Chiesa dell’Est oppressa dal totalitarismo comunista, riprese l’enciclica del suo predecessore Paolo VI per rilanciarne lo slogan: “Lo sviluppo è il nuovo nome della pace”. Era un modo per dire che se il comunismo aveva dato le risposte tragicamente sbagliate a legittime istanze di giustizia sociale restava però attualissimo, come pericolo, l’esplosione della rabbia dei poveri. “La questione sociale ha acquistato dimensione mondiale – disse Karol Wojtyla –. I popoli della fame interpellano oggi in maniera drammatica i popoli dell’opulenza”. La commemorazione dell’enciclica di papa Montini ebbe luogo nell’aula del Sinodo, in Vaticano, alla presenza di cardinali e prelati di curia e degli ambasciatori accreditati presso la Santa Sede.
La cerimonia fu aperta dal cardinale Roger Etchegaray, presidente della pontificia commissione Iustitia et Pax. Riassumendo i contenuti dell’enciclica, il porporato francese affermò: “Abbiamo il dovere di rilanciare oggi il grido di angoscia di Paolo VI, sempre più lancinante”. Quando uscì l’enciclica “Populorum progressio” nel 1967, sottolineò Giovanni Paolo II, “vi era una certa euforia, illusoriamente ottimistica, circa il progresso e lo sviluppo: si parlava, con un certo ingenuo compiacimento, di diversi miracoli economici, in realtà, le piaghe restavano in tante regioni del mondo con tutto il loro drammatico potenziale di morte».
Traendo spunto dal più celebre e acclamato testo montiniano (accolto con considerazione in ogni ambiente), Giovanni Paolo II mostrò le carenze e i limiti di quel cosiddetto miracolo economico e del prezzo che per esso si è dovuto pagare. Karol Wojtyla, quindi, seppe cogliere il vero dramma della storia contemporanea (il progresso di molti, la miseria dei più) mettendo al centro la questione difficile, ma inevitabile, del senso e della nozione del vero progresso. Sulle orme del suo predecessore Montini, Giovanni Paolo II ebbe la lungimiranza profetica di mettere radicalmente in questione quel tipo di progresso.
“Non si può concepire e attuare il progresso come se ciò che conta fosse soltanto l’arricchimento materiale ed egoistico, a costo di esaurire le risorse naturali, di rovinare l’ambiente ecologico, di non attendere alle necessità umane di ogni lavoratore e alla giusta gerarchia dei beni e dei fini – sostenne Wojtyla –. La vera nozione di progresso non può che scaturire da una critica penetrante sia delle varie forme di capitalismo liberale, sia dei sistemi totalitari, ispirati al collettivismo”. Anche in questi, infatti, “il valore economico è visto come supremo, con la conseguenza che ad esso e al tipo di sviluppo che ne deriva l’uomo e la vocazione sua propria vengono fatti servire”.
Quindi, evidenziò nettamente Karol Wojtyla, «per certi versi, i due sistemi che, almeno nelle loro forme più rigide, oggi si dividono il mondo, hanno certe convergenze che il confronto politico tende a dissimulare». Perciò “le divisioni che lacerano il tessuto dell’umanità non sono soltanto quelle ideologico-politiche, esistenti tra Est e Ovest, ma anche quelle economico-sociali, rilevabili tra Nord e Sud; e che le prime non sono poi del tutto indipendenti dalle seconde”. Giovanni Paolo II ribadì il diritto della Chiesa di intervenire, dal punto di vista morale, sulle questioni politiche e sociali, a partire dall’impegno della Santa Sede sul debito internazionale. Un tema che Karol Wojtyla vedeva “riacutizzarsi e aggravarsi in modo preoccupante, come una trama insidiosa”, coinvolgendo “tutti, paesi indebitati e paesi creditori, banche creditrici e istituzioni internazionali”.