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Dove nasce la Chiesa in uscita

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“Dio continua a chiamare chiunque, a qualsiasi ora, per invitare a lavorare nel suo Regno- ha spiegato papa Francesco-. Questo è lo stile di Dio, che a nostra volta siamo chiamati a recepire e imitare. Egli non sta rinchiuso nel suo mondo, ma ‘esce’: Dio sempre è in uscita, cercando noi; non è rinchiuso: Dio esce. Esce continuamente alla ricerca delle persone, perché vuole che nessuno sia escluso dal suo disegno d’amore”.

Perciò, secondo Jorge Mario Bergoglio, la Chiesa deve essere “sempre in uscita”, altrimenti “si ammala”. Ed è meglio “una Chiesa incidentata”, che una Chiesa “ammalata da chiusura”. Temi molto cari al suo pontificato, fin dalla prima predicazione e dal manifesto programmatico “Evangelii gaudium”. Sulle orme della parabola evangelica dei lavoratori chiamati a giornata dal padrone della vigna. Ma dove trae ispirazione in tempi moderni la Chiesa in uscita e purificata? Chi se non un autentico “figlio” del Concilio Vaticano II, con la sua memoria storica, con il suo messianismo tipicamente slavo, e con l’ansia che si portava dentro all’avvicinarsi del passaggio di millennio, chi se non uno come Karol Wojtyla-Giovanni Paolo II avrebbe sentito così intensamente l’esigenza di una profonda purificazione da parte della Chiesa?

Nella indizione del Grande Giubileo del 2000, c’era tutto il suo progetto: quello di una Chiesa trinitaria, cioè di un insieme armonico di unità e molteplicità, di identità e diversità; una Chiesa più spirituale, più evangelica, perché centrata sul primato della parola di Dio; una Chiesa più carismatica, più laicale, e meno istituzionale, meno gerarchica, meno clericale; una Chiesa maestra ma anche madre, anche misericordia, più rispettosa della coscienza del singolo credente, e non più dominata dal moralismo, da una vita cristiana caricata fondamentalmente di divieti, di pesi inutili; una Chiesa autenticamente universale, con un progressivo spostamento del baricentro verso il sud del mondo, l’Africa, l’Asia, l’America Latina, ma anche con una nuova attenzione ai Paesi dell’Occidente sempre più secolarizzati, scristianizzati.

Sì, certo, c’erano stati anche errori, così come c’erano stati ritardi, omissioni. Come l’aver lasciato (o l’essere stato obbligato a lasciare, lui che veniva da “fuori” e aveva incontrato subito una forte diffidenza) troppo spazio e troppa autorità alla Curia romana. O a causa di certe nomine e di certe decisioni, non sempre trasparenti, negli ultimi mesi di pontificato, quando la malattia di Wojtyla si andava aggravando, e forse, di conseguenza, anche la sua presenza era meno incisiva (e qualcuno, dei maggiori collaboratori attorno a lui, se ne era approfittato). E, comunque, tutto questo niente toglie alla grandezza di un Papa che aveva cominciato il suo ministero con un invito all’audacia della fede, ossia a vivere la fede nella società contemporanea senza paure, senza complessi; e a guardare la storia con gli occhi stessi di Dio: quelli della misericordia, della pace, della giustizia, della fraternità universale.

Un Papa che aveva realizzato concretamente, portandole ancora più avanti, molte delle nuove prospettive aperte dal Concilio: la Chiesa come popolo di Dio, la libertà religiosa e i diritti umani, le relazioni con l’ebraismo, con l’islam, e le tematiche sociali della “Gaudium et spes”, dalla difesa della famiglia al ripudio totale della guerra. Il primo Papa a entrare in una sinagoga, in una moschea. Il primo Papa a riunire i rappresentanti di tutte le Chiese e le religioni a pregare per la pace. Il primo Papa a “inventarsi” le giornate mondiali della gioventù.

Gianfranco Svidercoschi: