Categories: Opinione

“Dobbiamo rispettarci”. L’origine del dialogo con l’Islam

Era pressoché impossibile cancellare d’un colpo solo quattordici secoli di contrasti, di pregiudizi, di “guerre sante”. Quattordici secoli durante i quali cristianesimo e islam, alternativamente, avevano fatto di tutto per annientarsi. Da una parte, le crociate, la croce di Cristo sui vessilli; dall’altra, i ripetuti tentativi di invadere l’Europa, il nome di Allah inciso sui fucili, sulle scimitarre.

E tuttavia, anche qui, il Concilio Vaticano II era riuscito a imporre una svolta. Subissato di critiche, il testo sull’ebraismo, si era pensato di allargarne la trattazione all’islam e alle religioni non cristiane, buddismo, induismo, e a quelle africane. Così, il Concilio aveva segnato un netto cambio di atteggiamento nei riguardi della “religione musulmana”. Che era – come significativamente si sottolineava – una religione monoteistica, e con un preciso senso di identità.

Testimoniava la fede nell’Assoluto personale e trascendente rispetto al cosmo e all’uomo. Si caratterizzava per il legame con la fede di Abramo, per la venerazione di Gesù, quantomeno come profeta, nonché per la devozione a Maria. E ancora, i musulmani stimavano la vita morale, e rendevano culto a Dio particolarmente con la preghiera, con le elemosine e il digiuno. Parole decisamente nuove, impensabili fino a pochi anni prima. Parole, anzi, che aiutavano a dare una diversa lettura della storia islamica, lasciando intendere come il Corano andasse considerato, non come un manuale di guerra, ma come il libro sacro di Allah, e dove si parlava espressamente di “pace” almeno una cinquantina di volte. Lo stesso Maometto, del resto, era stato un uomo pacifico, quantomeno nel primo periodo della sua avventura.

Ebbene, grazie a quelle parole nuove, era stato possibile avviare un principio di collaborazione tra la Chiesa cattolica e l’islam. Erano state emesse alcune dichiarazioni congiunte per condannare atti di violenza, come quelli che si stavano consumando in Algeria. Nello stesso tempo, però, venivano ripetutamente alla superficie le difficoltà di dialogare con una religione, come quella musulmana, estremamente frammentata nelle posizioni e nei comportamenti. Fu a quel punto che si svolse la visita di Karol Wojtyla a Casablanca. “Dobbiamo rispettarci”, disse.

Quel terzo viaggio in Africa, nell’agosto del 1985, era stato faticosissimo, per la lunghezza, per i tanti incontri. E poi, quell’ultima tappa in Marocco, un Paese ufficialmente islamico, continuava a destare apprensione in Giovanni Paolo II. C’era il rischio di essere fraintesi, di provocare inutili polemiche. Ma re Hussein aveva insistito, era riuscito a convincerlo. E adesso, a entrare nello stadio di Casablanca, ogni dubbio sparì. Gli spalti e buona parte del prato erano una immensa macchia bianca; ottantamila giovani con la divisa candida, perché in quei giorni stavano partecipando a una manifestazione sportiva. Sarebbe rimasto l’unico grande incontro di massa avuto da Karol Wojtyla, durante il suo pontificato, con il mondo musulmano.

Il discorso pronunciato dal Papa, come gli altri, era stato preparato prima del viaggio, in Vaticano. Ma a giudicare dagli applausi dei giovani, dopo i passi più importanti, era stato pensato e scritto con grande sensibilità e lungimiranza. A cominciare dall’inizio, quando Giovanni Paolo II spiegò perché fosse andato lì, in Marocco, senza giri di parole, senza sotterfugi. Si presentò come vescovo di Roma, e come credente in Dio di fronte a credenti in Dio. “Con molta semplicità, vorrei darvi qui la mia testimonianza di ciò in cui credo”. A quel punto, il Papa entrò nel vivo della questione. Cristiani e musulmani, in quanto figli di Abramo, credono nello stesso Dio, “il Dio unico, il Dio vivente”, hanno molte cose in comune, come credenti e come uomini, e perciò devono rendere insieme testimonianza dei loro valori spirituali, dimenticando gli odi e le intolleranze del passato.

“Ci siamo trovati su posizioni opposte e abbiamo consumato le nostre energie in polemiche e guerre. Io credo che Dio ci chiami, oggi, a cambiare le nostre vecchie abitudini. Dobbiamo rispettarci. E dobbiamo stimolarci a vicenda nel compiere opere di bene“. Quell’incontro e soprattutto quel discorso suscitarono una forte attenzione in molti ambienti, specialmente quelli moderati, dell’arcipelago arabo. Non solo, ma, proprio per la loro positività, suggerirono al Papa come impostare un modello di “convivenza” da seguire nei rapporti con le altre religioni. Ciascuna, ovviamente, conservando la propria identità spirituale. Ma senza più rivalità. Senza più lasciare che la fede diventasse fonte di intolleranza, di dissidio, anziché essere promotrice, costruttrice di pace. Poi, c’era solo da abbandonarsi nelle mani di Dio; lo Spirito Santo si sarebbe “inventato” le occasioni giuste, per far sprigionare le sue novità.

Gianfranco Svidercoschi: