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Disabili e lavoro: cosa cambia

Durante la notte del recente veglione di capodanno, migliaia di persone con disabilità fisiche o intellettive hanno avuto un motivo in più per festeggiare. Scaduto il Decreto “Milleproroghe” del 2017 che rimandava di un anno l’entrata in vigore di alcune disposizioni previste dal cosiddetto “Jobs act”, dal 1°gennaio del 2018 le aziende italiane con un minimo di 15 dipendenti sono obbligate ad assumere, entro sessanta giorni, almeno una persona che rientri nelle liste del “Collocamento mirato”, nel quale oltre a piccole categorie specifiche, è incluso chiunque abbia riconosciuta una disabilità civile con percentuale pari o superiore al 60% nel caso di minorazione fisica e al 45% per la disabilità intellettiva. La quota obbligatoria sale ad un minimo di due nuovi assunti per le aziende con più di 35 dipendenti e fino al 7% dell’intera forza lavoro per quelle con più di 50 dipendenti. La sanzione amministrativa comminata per la non ottemperanza della disposizione è di 153,20 euro al giorno, che si protrae fino all’avvenuta assunzione. Le somme riscosse in seguito a contravvenzione, andranno a finanziare il “Collocamento mirato” che garantisce proprio l’inserimento lavorativo delle persone rientranti nelle categorie protette.

Dopo diversi correttivi, entra così in vigore quella parte della riforma del lavoro del governo Renzi a favore delle categorie più svantaggiate che definisce meglio vecchi istituti e ne introduce di nuovi, garantendo un maggiore coinvolgimento per le persone con disabilità medio-grave in cerca di occupazione.

Il principio ispiratore del nuovo quadro normativo è facilmente condivisibile, tuttavia non bisogna sottovalutare le implicazioni pratiche e le conseguenze reali per le piccole e medie imprese. Colonna portante dell’economia italiana, il settore delle Pmi è un mondo variegato di competenze artigianali e imprenditoriali che spesso diventa l’ammortizzatore sociale del sistema Paese soprattutto in momenti di crisi globale ovvero di incompetenza politica della classe dirigente. Sin dai tempi delle prime legislazioni a tutela dei lavoratori, la dimensione aziendale dei 15 dipendenti è stata considerata come una linea di confine, superato il quale un’impresa diviene solida a sufficienza per sobbarcarsi ulteriori responsabilità economiche e sociali nei confronti dei suoi dipendenti e della comunità. In un mercato iper-competitivo come quello attuale, la gestione delle risorse umane e dei rispettivi costi alla luce dei regimi fiscali e contributivi correnti, costituiscono una voce di bilancio estremamente delicata.

Oltre all’obbligo di assunzione, la normativa entrata in vigore prevede il potenziamento dei servizi di collocamento per i lavoratori fragili, che dovrebbe garantire la selezione mirata dei candidati. In aggiunta, sono inclusi nel provvedimento forme di sostegno ed incentivazione che sommati alle sanzioni eventuali, ricordano l'approccio del bastone e la carota utilizzato per piegare la volontà dello spirito più recalcitrante. Se da un lato l'intero impianto rispecchia la non cultura della disabilità nel nostro Paese, come dimostra anche il numero esiguo delle persone disabili con un'occupazione retribuita stabile, dall'altro pone la questione scomoda da un punto di vista morale ma concreta, da quello della produttività economica del lavoratore con disabilità il quale, per definizione, presenta limitazioni fisiche o intellettive di varia natura. Non a caso, l'attestazione di disabilità civile è accompagnata da una correlata attestazione di inabilità al lavoro, sebbene non necessariamente speculare alla prima nella determinazione dei livelli di gravità.

Se il lavoro inteso come attività creatrice e responsabilizzante, rappresenta senza ombra di dubbio la forma universale per eccellenza di inclusione sociale e crescita individuale, il lavoro inteso come oggetto di scambio nella dinamica di domanda e offerta in un mercato economico, assume inevitabilmente connotazioni selettive e, di conseguenza, escludenti. Come accennato in precedenza, tuttavia, le misure che stiamo discutendo riguardano un gruppo di persone molto eterogeneo, pertanto qualsiasi generalizzazione risulta inappropriata. E’ penoso constatare che la nostra società sia arrivata al punto di dover necessitare un intervento coercitivo dall’alto al fine di garantire la partecipazione di tutti i suoi componenti, inclusi i più svantaggiati, alle dinamiche relazionali che sono quasi ormai ridotte ai soli rapporti economici di forza. Gli incentivi economici vigenti prima di quest’ultima riforma, a sostegno della liberalità dei datori di lavoro, non hanno evidentemente sortito l’effetto sperato. D’altronde il fine giustifica i mezzi.

La più recente riforma del Terzo settore che ridisegna la figura dell'Impresa sociale, entità che coniuga l’interesse comunitario con l’utilità individuale, pressoché sconosciuta all'opinione pubblica italiana diversamente da quanto avviene ad altre latitudini, costituisce un provvedimento significativo da un punto di vista politico-culturale, con il quale si veicola un modello di fare impresa alternativo a quello tradizionale con tutti i suoi paradossi. Una scelta forse più coerente con i dettami della Costituzione, ma soprattutto con la Dottrina sociale della Chiesa, integrata dalla recente Esortazione Apostolica “Evangelii Gaudium” attraverso la quale Papa Francesco ha affermato che “il lavoro è l'attività in cui l'essere umano esprime ed accresce la dignità della propria vita”.

In conclusione, è d’obbligo fare una considerazione particolare riguardante le persone interessate dalla nostra breve trattazione. Le categorie, le etichette, le percentuali, per quanto utili all’organizzazione e la gestione razionale del bene pubblico, non dovrebbero mai prendere il posto dell’essere umano e della sua umanità. Ognuno di noi ha la responsabilità morale nei confronti dei più deboli che passa anche attraverso una compartecipazione economica, finalizzata alla tutela e allo sviluppo della persona, con buona pace di quanti auspicano la disgregazione della comunità e dei suoi valori.

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