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La differenza tra fede e religiosità

La storia è vera, l’ha raccontata tempo fa su una rivista cattolica una delle stesse protagoniste. Due ragazze si conoscono sul posto di lavoro, diventano amiche, e a un certo momento per risparmiare decidono di affittare assieme un appartamento. Vanno d’accordo in tutto, nel dividersi le incombenze, la pulizia, la spesa, chi fa da mangiare, chi paga le bollette. Solo in un punto non coincidono. L’una è mezza atea, l’altra cattolica; ma di questo, sapendolo, non ne parlano mai. Ognuna ha le sue idee, ha fatto le sue scelte. Finché, una domenica, succede il fatto. La cattolica si prepara per andare alla Messa, e passa a salutare l’amica. Che è sprofondata sotto le coperte, apre appena gli occhi, e, guardandola, chissà perché le viene in mente di fare quell’osservazione. “Ci pensi? In fin dei conti, l’unica differenza fra te e me è la domenica. Io posso permettermi il lusso di poltrire a letto, e tu invece devi andare in chiesa. Ma, per il resto della settimana, chi potrebbe accorgersi che tu credi e io no?”.

E’ una battuta, solo una battuta, ma manda in crisi l’amica cattolica. Che ci pensa su, a lungo, e poi decide di rivolgersi a un sacerdote, uno che conosce bene, e con il quale può confidarsi. “Ma allora, la mia fede è solo un di più che non mette in gioco niente?”. E’ una storia piccola piccola (l’ho riportata anche nel libro “La Chiesa in mezzo al guado” edito dal Pozzo di Giacobbe), ma con dentro una grande tormentosa verità. Quella che Soren Kierkegaard, in Malattia mortale, definiva “l’inquietudine più alta dello spirito”, ossia la difficoltà del vivere da cristiano, trovandosi “in un mondo perverso che crocifigge l’amore!”. Ed è una difficoltà che, oggi, s’è fatta ancora più acuta. Per i mille pericoli, le mille tentazioni, che comporta la modernità. Per le continue delusioni che si provano, a dover leggere sui giornali gli scandali che coinvolgono uomini di Chiesa. Ma anche, questa difficoltà, per i rischi che si nascondono dietro una visione moralistica della fede, come conseguenza di una vita cristiana attenta prevalentemente ai precetti, a una interpretazione solo letterale della legge di Dio.

Sì, certo, c’è una differenza sostanziale tra fede e religiosità. La fede è un insieme di verità attinte dal Vangelo, e che va assolutamente salvaguardata nella sua integrità. Invece la religiosità è, in qualche modo, legata ai tempi che cambiano, e quindi dovrebbe continuamente rigenerarsi, venir costantemente reinterpretata. Con gradualità, con attenzione, e senza stravolgimenti, ovviamente. Ma parole, simboli e gesti – pensati per credenti di altre epoche, con un’altra spiritualità, con un’altra sensibilità – devono necessariamente, per essere comprensibili e vissuti nella loro autenticità, adattati alla spiritualità e alla sensibilità dei nuovi credenti, e specialmente delle nuove generazioni. Del resto, da sempre, il Vangelo viene annunciato e propagato all’interno delle caratteristiche culturali del proprio tempo. Dunque, c’è una differenza tra fede e religiosità. Ma anche una naturale complementarietà.

Spiegano i teologi che la fede, pur essendo un dono di Dio divinamente ispirato, è un autentico atto umano, una risposta umana alla rivelazione di Dio. In altre parole, più semplicemente, fede e religiosità si integrano, o almeno dovrebbero integrarsi, nella vita del credente: la fede in quanto fondamento della religiosità, e la religiosità in quanto espressione, manifestazione, della fede. Ed ecco perché, se la fede è “debole”, se si è inaridita, se non riesce ad aprire alla trascendenza, alla presenza di Dio, la religiosità finisce inevitabilmente per diventare routine, solo esteriorità, solo formalismo. E anche all’inverso. Se la religiosità s’è via via ridotta a stanca ripetitività, ad abitudine, la fede sfiorisce, finisce inevitabilmente per diventare sempre meno “significante”, sempre meno “influente” nella storia umana.

Gianfranco Svidercoschi: