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Perché il ddl Zan può essere paragonato ad un iceberg

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E’ indubbio che è in atto un’azione collettiva che vede da tempo impegnati, a vario titolo, il mondo dello spettacolo, opinionisti, certa stampa, alcuni Partiti e che ha come unico scopo di perseguire la legittimazione della legge Zan con la conseguente introduzione del “reato di opinione” e dell’educazione gender nelle scuole.

E’ un azione che parte da lontano e da tempo, attraverso talk show, fiction e spot pubblicitari che, negli ultimi anni a senso unico e in maniera continua e ossessionante, hanno cercato di creare nell’opinione pubblica un indirizzo culturale di assuefazione all’omosessualità, fino a spingersi oltre nei messaggi educativi LGTB.

Contemporaneamente il tentativo di frenare questa “ideologia” culturale da parte della Chiesa, ha autorizzato chiunque a criticare il Magistero spesso inventando o cercando comunque di mettere in cattiva luce il mondo ecclesiale. Basti pensare, ad esempio, a presunte tasse non pagate allo Stato, quando in realtà nel solo 2020 l’Amministrazione della Sede Apostolica ha corrisposto in imposte 5.95 milioni di IMU e 2.88 milioni di euro di IRES, alle quali vanno poi aggiunte ulteriori imposte corrisposte dal Governatorato, Propaganda Fide, Vicariato, CEI e Enti religiosi.

Del resto è uno strano Paese il nostro dove, da un lato si è liberi di “blasfemia” come accaduto nel recente Gay Pride di Roma e Milano dove è stato oltraggiato il Crocefisso e calpestata l’immagine del Pontefice, dall’altro si pretende il “rispetto” portando avanti i diritti delle comunità LGTB attraverso l’approvazione del ddl Zan. Tali atti certamente blasfemi, e non di meno dalla volgarità smisurata, hanno offeso infatti e in maniera diretta un miliardo e mezzo di cattolici che riconoscono nel Cristo sulla croce il fondamento del proprio “credo”, e nel Santo Padre la “Guida” della Chiesa cattolica.

A tale proposito per di più la legge, ignorata, del 24 febbraio 2006 n. 85 (art. 8), così recita: Chiunque, in un luogo destinato al culto, o in un luogo pubblico o aperto al pubblico, offendendo una confessione religiosa, vilipende con espressioni ingiuriose cose che formino oggetto di culto, è punito con la multa da euro 1.000 a euro 5.000. Questa intolleranza e questo modo di manifestare nel Gay Pride, non osiamo nemmeno immaginare a che cosa potrebbero portare all’indomani dell’approvazione della legge Zan.

La stessa CEI infatti aveva già manifestato dei dubbi sull’approvazione di tale ddl nei limiti nei quali è normato “Un’eventuale introduzione di ulteriori norme incriminatrici rischierebbe di aprire a derive liberticide, per cui, più che sanzionare la discriminazione, si finirebbe col colpire l’espressione di una legittima opinione”.

Tale preoccupazione è stata ribadita anche dalla Santa Sede che ha chiesto formalmente il 17 giugno al governo italiano, a firma del Segretario per i rapporti con gli Stati monsignor Paul Richard Gallagher, di modificare il ddl Zan violando esso, in difetto, l’articolo 2, commi 1 e 3, del Concordato relativi alla sua “missione pastorale, alla piena libertà di riunione e di manifestazione del pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”.

L’intervento del Vaticano sul governo italiano ha avuto come obiettivo, come affermato dal Segretario di Stato Cardinale Pietro Parolin, “non di bloccare” il ddl Zan ma di “rimodularlo in modo che la Chiesa possa continuare a svolgere la sua azione pastorale, educativa e sociale liberamente”.

Perché proprio di questo si tratta, questa legge infatti può essere paragonata, metaforicamente, ad un iceberg dove ciò che emerge ed è visibile è rappresentato dagli articoli che prevedono un inasprimento delle pene nei confronti di reati contro la  trans-omofobia, ma i due terzi dell’iceberg, invisibili all’opinione pubblica ma per questo più temibili, nascondono i veri “obiettivi” della legge attraverso l’Art. 1 (Definizioni)  Identità di genere, l’Art. 4 (Pluralismo delle idee e libertà delle scelte) e l’Art. 7 (Istituzione della Giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia) che mirano ad introdurre l’educazione gender nelle scuole e a limitare la libertà d’opinione. L’art. 4 infatti lascia dei punti non definiti che si riservano così ampi spazi di discrezionalità nell’interpretazione della legge; nel testo manca infatti, una definizione giuridica precisa del reato per cui nel caso specifico l’eventuale condanna verrebbe lasciata all’interpretazione dei giudici.

Il reato di opinione è oggetto giuridico assai complesso e risulta assai difficile stabilire il confine tra il diritto alla libertà di espressione e il pericolo di una limitazione sproporzionata e incostituzionale dell’autonomia delle proprie idee. Il rischio pertanto è rappresentato dal fatto che, in caso di approvazione, se non ci si allineasse col “pensiero unico”, si rischierebbe realmente di esser passibili di condanna, oltreché d’ isolamento.

Se passasse questa legge, infatti, potrebbe essere condannato, a discrezione del magistrato, per reato di omofobia chiunque esprima opinioni come: il matrimonio è solo tra uomo o donna o l’identità sessuale è un’unità anatomo biologica; e ancora non sarebbe possibile nè dissentire dalla pratica della gestazione per altri, nè opporsi all’educazione Gender nelle scuole.

L’altro aspetto nascosto, ma del tutto evidente, riguarda gli articoli 1 (Identità di genere) e 7 (Giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia) che mirano a portare l’educazione gender nelle scuole, privando così il diritto primario dei genitori, vale a dire il diritto educazionale.

Siamo convinti pertanto, che il problema della discriminazione nel confronto degli omosessuali, vada affrontata non tanto attraverso l’inasprimento delle pene, come già dimostrato nel reato di femminicidio dove non si è osservato un reale calo significativo dei delitti pur con l’aumento delle condanne, quanto piuttosto con la cultura del rispetto dell’altro; occorre però che questo progetto formativo abbia inizio fin da giovani in casa, per poi proseguire nella scuola e completarsi infine sui luoghi di lavoro.

Stefano Ojetti: