Dal Concilio ad oggi la Chiesa ha resistito a numerose bufere. Grazie ai Pontefici che tengono diritta la barra. E grazie allo stesso Vaticano II, che, rinnovandola in profondità, l’aveva per così dire “attrezzata” ad affrontare le intemperie, anche se impreviste. C’era stato un forte risveglio missionario e carismatico. La riforma liturgica, con le novità introdotte nella Messa, aveva ravvivato quella che, per non pochi credenti, rimane spesso l’unica espressione visibile di fede. Erano nati nuovi movimenti laicali, sopravanzando il vecchio associazionismo cattolico, e con un nuovo protagonismo dei giovani, delle donne. C’era però qualcosa che non andava, nell’opera di attuazione del Vaticano II. Qualcosa di cui ci si sarebbe accorti, purtroppo, molti anni dopo. E malgrado ci fosse stato anche un campanello d’allarme. Sonorissimo. Indicativo. Inquietante. Ma nessuno, allora, lo mise in collegamento con lo stato di incertezza che, affievolitisi gli iniziali entusiasmi postconciliari, si avvertiva nelle comunità cristiane.
Il problema della natalità, accantonato alle assise ecumeniche dal Papa per motivi di opportunità, era rispuntato fuori in termini roventi, e con toni polemici esasperati. Paolo VI, a quel punto, decise di riaprire la questione, e, per approfondirla, creò due commissioni, l’una di esperti, l’altra di cardinali e vescovi. Ora, lasciamo stare tutti gli errori che furono commessi, la fuga pilotata di notizie sulle risultanze dei due organismi e favorevoli a un cambiamento della dottrina morale. Come pure l’indecisione di papa Montini, il quale chiese un “supplemento di studi”, ma che durò troppo, due anni; mentre l’opinione pubblica, fraintendendo il senso di quel ritardo, si andò via via convincendo che ci sarebbe stata un’apertura verso un certo tipo di contraccezione. Lasciamo stare tutto questo, e restiamo alle conclusioni, drammatiche, di quella vicenda.
Proprio per la prolungata mancanza di informazioni, ma anche per essere stati da sempre abituati a sintonizzare la propria vita cristiana sulle norme, sulle regole, moltissimi credenti videro nell’enciclica Humanae vitae soltanto il no alla cosiddetta “pillola cattolica”. E niente invece dell’invito di Paolo VI alla “paternità responsabile”, della quale gli sposi avrebbero dovuto prendere coscienza. E che, spiegava il Papa, andava esercitata “sia con la deliberazione ponderata e generosa di far crescere una famiglia numerosa, sia con la decisione, presa per gravi motivi e nel rispetto della legge morale, di evitare temporaneamente, od anche a tempo indeterminato, una nuova nascita”. Parole che invitavano alla responsabilità, a confrontarsi con la propria coscienza. E che invece tanti cristiani non riuscirono a comprendere. O non vollero comprendere. E, questo, perché non erano stati aiutati – dai loro preti, dai loro confessori – a cogliere il senso autentico dell’insegnamento pontificio sulla paternità e la maternità responsabili. Quei preti, quei confessori, si erano “comodamente” attenuti all’interpretazione restrittiva del documento, al no alla “pillola”. Finendo così per gettare nello sconforto, e spesso per allontanare dalla Chiesa, centinaia di migliaia di coppie in crisi sul numero di figli da mettere al mondo.
Quel che accadde con l’Humanae vitae, si diceva prima, fu un chiarissimo campanello d’allarme, ma che sul momento nessuno capì. Solo molti anni dopo, si cominciò a scoprire quello che era stato, e continuava ad essere, il vero grave limite nell’applicazione del Concilio. Che cosa era successo? Che al popolo di Dio – ovverossia alla stragrande maggioranza dei credenti, che sono laici – i chierici non avevano raccontato, né spiegato, né peggio ancora fatto vivere il Vaticano II. Avevano parlato molto, questo sì, dei cambiamenti canonici, istituzionali, ma poco di quelli pastorali che interessavano i fedeli. La gente aveva respirato il rinnovamento conciliare, attraverso specialmente la riforma liturgica, ed era riuscita anche a tradurlo nella propria vita spirituale. Ma restando sempre alla superficie, ai mutamenti esterni, la scomparsa del latino, gli altari voltati, la lettura dei brani della Santa Scrittura, le “intenzioni dei fedeli”, lo scambio della pace. E dunque, senza mai arrivare a comprendere che, quel nuovo modo di pregare, non si fermava all’aspetto propriamente liturgico, ma sarebbe dovuto approdare a una nuova maniera di vivere la fede, di testimoniarla.
Così, non solo non ci fu la partecipazione del laicato – e l’apporto che avrebbe potuto dare con tutta la forza e la varietà dei suoi carismi – all’attuazione e allo sviluppo delle prospettive aperte dal Concilio. Non solo questo, ma, venuta a mancare la maturazione interiore, la fede prese a inaridirsi anzitutto nelle coscienze, per poi impoverirsi fuori, fintanto a banalizzare il sacro. Basterebbe pensare a certe Messe domenicali, diventate consuetudine, semplice precetto da assolvere: il prete, ora, non girava più le spalle, ma continuava a monopolizzare l’azione liturgica, e l’assemblea dei fedeli continuava a far solo da scenografia. Basterebbe pensare a quanto abbiano perso di significato certe tradizioni, proprie della pietà popolare, legate spesso ai santuari mariani, e che alimentavano le radici spirituali della gente più semplice.