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Di cosa ha davvero bisogno Roma

Di cosa ha davvero bisogno Roma per evitare un collasso che sembra inevitabile? Sto girando la città raccontando i progetti che vorrei attuare per dare il mio contributo in Comune, dopo quasi dieci anni di lavoro in Secondo Municipio, e mi accorgo che abbiamo perso qualcosa che viene prima delle nuove pianificazioni (rifiuti, trasporti, infrastrutture…) di cui pure abbiamo urgente bisogno. Abbiamo perso un senso di comune figliolanza – e quindi di fratellanza – nei confronti della nostra città.

Pensiamoci: il simbolo di Roma è una lupa che allatta due bambini. C’è tutta la forza espressiva di ciò che ha fatto grande Roma e può tornare a proiettarla nel futuro: una madre che trasmette le sue sostanze nutritive, la sua “linfa vitale”, a due figli acquisiti, non della sua specie, donando energia per sopravvivere, crescere e prosperare. Quello della lupa non è un atto dovuto ma, in definitiva, un puro e quasi istintivo gesto di carità. Questa è la chiave in cui rileggere le riforme di cui la nostra città ha bisogno, e non solo in senso infrastrutturale o patrimoniale: Roma ha bisogno di Carità. In che senso?

Nel 1970 San Paolo VI disse che la politica è la più alta forma di Carità. Pochi ricordano il contesto: il 25° anniversario della fondazione della FAO, che proprio a Roma, credo profeticamente, fissò la sede internazionale esattamente 70 anni fa. Il Papa lodava la missione della FAO rivolta ad “alleviare le più grandi miserie e impegnata in una lotta senza quartiere per dare a ciascun uomo di che mangiare per vivere, il che vuol dire vivere una vera vita d’uomo, capace, col suo lavoro, di assicurare la sussistenza dei suoi, in grado, con la sua intelligenza, di partecipare al bene comune della società”. Non è forse proprio questa, in definitiva, la missione della politica stessa? E non lo è anche al livello più prossimo alle esigenze della persona, quello comunale?

Sono un ingegnere gestionale, lavoro da anni nella maggiore società di consulenza italiana e sono specializzato, oltre che in progetti digitali, in mobilità e trasporti. Per oltre un anno ho lavorato a una nuova pianificazione della viabilità romana, centrata sullo studio analitico dei flussi del traffico grazie alle nuove tecnologie e su una maggiore sinergia tra mezzi pubblici e privati. Perché parlo di questo dopo aver citato le alte parole di Paolo VI sulla Carità? Perché per risolvere il problema dei trasporti a Roma troppo spesso è stato adottato un metodo ideologico, che parte da un ideale astratto e tenta di costringere le persone ad adeguarsi (esempio: ti taglio la strada con una pericolosa ciclabile disegnata per terra coi gessetti). Dobbiamo passare a un metodo più pragmatico e realistico, oserei dire più umano. Bisogna partire dall’esperienza concreta e dai bisogni delle famiglie e mirare, progressivamente, a coniugare gli interessi di quasi 3 milioni di cittadini in un sistema gestionale rispondente al bene comune. Questo secondo metodo è improntato alla Carità. Il primo è un metodo che diviene presto punitivo e repressivo: ti tolgo i parcheggi nel quartiere, o te li faccio pagare anche vi risiedi, così sei costretto – dalla frustrazione – a rivedere le tue abitudini; aumento la pressione di controlli e multe pur sapendo che il numero dei parcheggi è un terzo rispetto al numero delle auto circolanti.

Questo non è mettere le idee al servizio delle persone, ma le persone al servizio delle idee. Potrei fare decine di esempi. Cito quelli che ho più a cuore, come l’integrazione sociale e culturale. La contaminazione della comunità romana con sempre più cittadini di altre nazioni, etnie, religioni e culture è un processo ineludibile e irreversibile che non potrebbe essere evitato (per chi mai volesse evitarlo) nemmeno dalla più restrittiva delle politiche migratorie. Molte capitali europee sono state travolte dagli effetti collaterali (spesso tragici) di un multiculturalismo ideologico di facciata perché hanno pensato che l’unico modo per accogliere la diversità fosse rinunciare alla propria identità, senza rendersi conto che, al contrario, ribadire la propria identità è la premessa logica per accogliere l’altrui diversità. Da consigliere del II Municipio, ad ottobre del 2014 e del 2015, ho organizzato le Olimpiadi Interreligiose della Pace, nella ricorrenza simbolica della preghiera di San Giovanni Paolo II ad Assisi con numerosi esponenti religiosi. È stato un felice successo: 300 partecipanti alla prima edizione, oltre 2.000 nella seconda, con preghiere di importanti esponenti religiosi uniti dallo stesso desiderio di rispetto reciproco. A tutto vantaggio della coesione e della pace sociale nei territori.

Non è possibile parlare di carità a Roma senza citare il lavoro decisivo svolto dalla Caritas Diocesana, un vero e proprio “ospedale da campo” nelle “periferie esistenziali” della città, per usare l’ispirata terminologia di Papa Francesco. Le periferie esistenziali non riguardano solo una povertà economica o sociale, ma sempre più spesso una povertà relazionale e affettiva. Le solitudini dilagano e amplificano difficoltà e sofferenze. Penso alle conseguenze drammatiche di due solitudini, in particolare: quella di migliaia di padri separati, che spesso finiscono a vivere per la strada, e quella di migliaia di donne colte da gravidanze inaspettate, a cui la società propone cinicamente solo l’aborto come unica soluzione. Dov’è lo sguardo di Carità nelle politiche sociali verso queste persone? Che dire, poi, di tutto quello che il Comune potrebbe fare – e spesso non fa – per la solitudine delle donne “crocifisse” nella tratta della prostituzione?

Vorrei terminare con una riflessione fatta in questi giorni di campagna elettorale. Il Vescovo di Roma è Papa perché, come diceva Sant’Ignazio di Antiochia, la Chiesa di Roma “presiede in carità tutte le chiese”. Penso che Roma dovrebbe accettare questa sfida anche sul piano laico, puntando a diventare la “Capitale della Carità”, punto di riferimento e faro per le altre metropoli internazionali su come si costruisce un sistema-città improntato non all’ideologia ma alla carità. Questo è il motivo per cui ho deciso di impegnarmi in politica e candidarmi al Consiglio Comunale di Roma. Perché “la carità – chiudendo sempre con San Paolo VI – è il motore di tutto il progresso sociale”.

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