Il pensiero delle sofferenze delle fasce più deboli della popolazione in quest’epoca di profonda crisi è raccapricciante. Non bisogna essere sociologi per comprendere il disagio insostenibile e le difficoltà insormontabili di chi non riesce più a sostentarsi, di chi è stato lasciato a casa o ha visto svanire i risparmi di una vita. È giusto e doveroso che a queste categorie di persone vada tutto il sostegno dell’opinione pubblica.
Esiste però un gruppo molto particolare, di cui raramente si sente parlare, poiché i suoi stessi componenti si nascondono il più possibile dietro facciate social sempre più fragili, sorrisi sempre più incerti. Giovani, ma non giovanissimi, ‘privilegiati’, o almeno così percepiti.
Questi individui hanno avuto, grazie alle loro famiglie, diciamolo, benestanti, l’enorme opportunità di studiare ciò che hanno voluto, di spendere anni a formarsi, specializzarsi, accumulare corsi e master, lingue straniere e competenze avanzate. Resi ingenui dalle loro stesse belle speranze, i giovani privilegiati si sono convinti, erroneamente, è evidente, che una formazione d’eccellenza fosse il lasciapassare sicuro per la realizzazione professionale. Illusi, illusi ed ancora illusi!
Freschi di primo impiego, impegnati nella cosiddetta gavetta, i rampolli di alto profilo sono stati duramente colpiti dalla mannaia della crisi indotta dalla pandemia, non più preziose risorse da coltivare e far crescere come piante esotiche, ma inutili escrescenze succhiasoldi da estirpare senza pietà.
Inizialmente abbagliati dalla nuova condizione come cervi dai fanali di un’auto, i giovani privilegiati hanno scrollato fatalisticamente le spalle, raccattato una piccola dose di arroganza e iniziato a spedire in giro i cv, certi che il detto ‘chi non mi apprezza non mi merita’ fosse applicabile anche a questa situazione.
Memori degli insegnamenti della scuola e dell’università, impregnati del concetto di meritocrazia, e soprattutto dei claim di marketing dei loro costosi master, che promettevano successo garantito, hanno dovuto sbattere i propri eleganti musi contro una granitica realtà: le loro preziose competenze, in epoca di crisi, valgono quanto l’oro di Re Mida. Ne posseggono una quantità notevole, ma non sono in grado di farne assolutamente nulla.
I lunghi curricula colmi di titoli complicati vengono rifiutati con sdegno, finanche con una certa dose di sorpresa per l’ardire di questi sconsiderati, che provano ad elemosinare un posto di lavoro in un momento simile. ‘Ovviamente adesso è tutto fermo’, è la frase che rimbomba da un ufficio risorse umane all’altro, bersagliando l’incauto candidato. Ovviamente, con il sottinteso ‘riprendi il contatto con la realtà, giovanotto. Sei inutile’.
È una presa di coscienza sconvolgente, per una messe rigogliosa di architetti e designer, comunicatori e manager, avvocati internazionalisti e giornalisti…tutta gente che ha avuto la pretesa, anzi, la presunzione, di credere che i propri ambiziosi sogni potessero realizzarsi con un po’ di studio e fatica. Presa di coscienza che sfocia ben presto in un lacerante senso di vergogna, di insoddisfazione e frustrazione. E allora, cosa fa l’insoddisfatto? Cerca conforto negli altri, prova a lamentarsi, a far sentire la propria voce. Errore madornale, per un privilegiato! Le attese occhiate di comprensione sono sorrisi di scherno, le parole consolatrici, frecce colme di acredine.
“Almeno non ti manca da mangiare”.
“Almeno hai i tuoi che pensano a te”.
“Ma di che ti lamenti se tanto puoi perfino permetterti di andare in vacanza?”
Il giovane privilegiato, sotto il peso di queste considerazioni, china la testa e si impone il silenzio. Si autoconvince di essere indegno di comprensione, lui, che nella vita ha avuto tutto. Lui che ha avuto l’ardire di credere in sé stesso. Alcuni, depositari di verità assolute, si spingono a biasimare l’originario ottimismo di chi ha cercato di sfuggire al sistema delle caste professionali, con la penna rossa ben sollevata ad indicare l’evidente errore di giudizio. Vuoi fare l’architetto, ma tuo padre è avvocato. Vuoi fare l’avvocato, ma tuo padre è dentista. Vuoi fare il dentista, ma guarda caso? Tuo padre è architetto. Se avessi seguito le orme paterne, non saresti in questa situazione.
I giovani Mida, lacerati dal senso di colpa, si ripiegano sempre più su se stessi. Puniti per la tracotanza giovanile, puniti per il privilegio della ‘paghetta’ mensile, che incassano con l’amaro in bocca e una costante sensazione di fallimento, guardano terrorizzati al futuro. Un futuro in cui non saranno più così giovani. Li assale la paura di aver perso il turno, aver saltato il proprio giro di giostra. Presto le loro competenze tanto sudate non saranno che valuta fuori corso, sostituite da quelle di uno smagliante esercito di nuove leve, rinvigorite dal boom che notoriamente segue le crisi e pronte, con il coltello tra i denti, a strappare dalle mani infiacchite degli sfortunati predecessori gli ambiti premi professionali.
Ai Re Mida della crisi non resta che raggomitolarsi sulle proprie luccicanti pile di titoli e chiedere scusa. Scusa per le proprie illusioni. Scusa per i propri privilegi. Scusa per i propri sogni.