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Il contributo della Santa Sede per difendere la pace e la giustizia

“Chiediamoci se nella Chiesa partiamo da Dio, dal suo sguardo innamorato su di noi”, esorta papa Francesco. Sempre c’è la tentazione di partire dall’io piuttosto che da Dio, di mettere le nostre agende prima del Vangelo, di lasciarci trasportare dal vento della mondanità per inseguire le mode del tempo o di rigettare il tempo che la Provvidenza ci dona per volgerci indietro. Il Pontefice ci invita a stare attenti: sia il progressismo che si accoda al mondo, sia il tradizionalismo – o l’“indietrismo” – che rimpiange un mondo passato, non sono prove d’amore, ma di infedeltà. Sono egoismi pelagiani, che antepongono i propri gusti e i propri piani all’amore che piace a Dio, quello semplice, umile e fedele che Gesù ha domandato a Pietro. Uno storico francese, Emile Poulat, scrisse che la Chiesa cattolica era cambiata più nei dieci anni seguiti al Concilio Vaticano II che non nei cento anni precedenti. Verissimo. Ma è anche vero che la classe clericale prestò più attenzione ai cambiamenti di ordine istituzionale e strutturale – come la creazione di un Sinodo dei Vescovi – che non a quelli sul piano pastorale, e che riguardavano ovviamente l’intera comunità cattolica.

Il Concilio Vaticano II aveva preparato la Chiesa ad affrontare, pur senza averle potute oggettivamente prevedere, le grandi sfide e le grandi emergenze nel passaggio tra il XX e il XXI secolo. Fu un vertiginoso susseguirsi di sconvolgimenti politici, sociali, culturali, morali. Dalla crisi dei missili a Cuba, dagli sviluppi della scienza e della tecnica, alla rivoluzione giovanile, all’autodeterminazione dei popoli africani. Dalla globalizzazione, che ha sconvolto tutto, alla metamorfosi antropologica, che ha mutato la concezione stessa dell’esistenza umana. La fine delle ideologie. Muri crollati e altri che venivano alzati. Nuove guerre, un nuovo terrorismo, un nuovo interminabile flusso migratorio. L’attentato alle Torri Gemelle, il conflitto in Iraq, le rivolte nel mondo arabo. Fino alla tragedia planetaria, il coronavirus. E, arrivando ai nostri giorni, l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia di Putin. E se è vero che per la crisi ucraina, forse perché esplosa all’improvviso, s’è avvertita una certa inadeguatezza della diplomazia vaticana, questo però non può far dimenticare il grande e spesso decisivo contributo che i Papi e la Santa Sede hanno dato, in anni così difficili, in difesa della giustizia e della pace nel mondo.

Un contributo segnato dalla credibilità, dall’autorevolezza, proprio perché discendeva da un Concilio che aveva riportato la Chiesa tra gli uomini, e l’aveva liberata da secolari compromissioni mondane, ne aveva accentuato l’afflato evangelico. Dunque, per riassumere, il Vaticano II fu davvero un “nuovo inizio” per il cattolicesimo, sul piano spirituale, pastorale, come su quello ecumenico e temporale. Niente, nella Chiesa, fu come prima. Nessuno, si diceva, potrà negarlo. Adesso però – e qui entriamo nella seconda parte della riflessione – bisognerà anche cercare di capire perché la rivoluzione conciliare, dopo sessant’anni, non sia stata realizzata pienamente. E, questo specialmente, perché il Concilio – ed è il Papa attuale, Francesco, che lo afferma con sempre maggiore frequenza – sia diventato una delle cause, se non addirittura la causa principale, della grave crisi che sta vivendo la Chiesa cattolica. Ma come si è arrivati a questo punto? Com’è stato possibile stravolgere l’insegnamento del Concilio, il suo valore profetico, fintanto a considerarlo – anche se è il giudizio della minoranza conservatrice più estremista – opera dell’Anticristo, l’origine di tutti i mali di cui soffre oggi il cattolicesimo? All’inizio, terminate le assise ecumeniche, ci fu una esplosione di entusiasmo, di vivacità ecclesiale.

Con le sue novità, a cominciare dall’uso delle lingue volgari nella Messa, la riforma liturgica aiutò sicuramente la massa dei credenti a respirare la nuova aria che circolava nella Chiesa, e a immetterla nella propria quotidianità spirituale, ma, e questo fu un primo limite, mancò l’impegno fattivo dei vescovi e soprattutto dei parroci a “raccontare” il Concilio ai laici cristiani, a spiegargli il significato dei nuovi gesti che essi compivano, delle nuove parole che pronunciavano, delle nuove responsabilità di cui i Papi – come Paolo VI con l’“Humanae vitae” – li chiamavano a prendersi carico. Come dire, molto in sintesi, che il Concilio rimase un fatto essenzialmente “clericale”. Nel popolo, dunque, non ci fu quel processo di interiorizzazione del Vaticano II che avrebbe dovuto portarlo a una nuova maniera di vivere la fede, di testimoniarla nella vita di tutti i giorni.

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