Il 26 maggio si terranno le elezioni presidenziali in Siria, le seconde dall’inizio della guerra civile nel marzo 2011. Il risultato appare scontato: ci si aspetta un’altra vittoria del Presidente Bashar al-Assad, in carica dal 2000 e sostenuto da Russia e Iran.
Assad si batterà contro due candidati, i soli autorizzati dal regime: l’ex ministro Abdallah Salloum Abdallah e Mahmoud Marei, esponente dell’opposizione tutt’altro che indipendente. In linea con i risultati delle ultime elezioni del 2014, quando Assad si aggiudicò l’89% dei consensi, anche le reazioni di Europa e Stati Uniti sono scontate: il voto è illegittimo e sino a quando non vi sarà un reale processo di transizione politica le sanzioni rimarranno in vigore, impedendo quindi anche la ricostruzione della Siria oramai dilaniata da dieci anni di conflitto.
La situazione nel Paese rimane critica. Sebbene Assad abbia riconquistato circa il 70% del territorio, a nord-est prevalgono le milizie curde, vicine agli Stati Uniti, mentre a nord-ovest, gruppi di ribelli di ispirazione islamista, legati alla Turchia. Sono inoltre presenti contingenti di militari russi, statunitensi, turchi, iraniani e francesi, mentre non è stata affatto eradicata la minaccia del sedicente Stato Islamico. Sullo sfondo dilaga una catastrofe umanitaria: 13,5 milioni di persone in Siria necessitano di assistenza umanitaria, circa il 90% della popolazione vive al di sotto della soglia della povertà e 1,27 milioni di persone soffrono di severa insicurezza alimentare (50% in più del 2020). Con 6,6 milioni di sfollati interni e 5,6 milioni di rifugiati sparsi nella regione, rimane ben poco della Siria di un decennio fa, a parte la famiglia Assad.
In vista del voto, Assad ha adottato misure populiste che vanno dall’aumento degli stipendi statali alla liberazione di oltre 400 persone, detenute per aver lamentato la difficile situazione in cui versa il Paese. Ai residenti all’estero è stato permesso il voto nelle ambasciate siriane, un metodo che però esclude gran parte dei rifugiati, particolarmente coloro che si oppongono al regime. Svolgere le elezioni in queste condizioni è quindi un esercizio volto a dare una parvenza legittimità al regime di Assad, ormai in procinto di aggiudicarsi il quarto mandato presidenziale.
Sul piano internazionale, il dialogo politico e costituzionale guidato dall’Onu resta bloccato, e il voto certo non favorirà una più rapida ripresa dei negoziati tra regime e opposizione. Mentre Russia e Iran sottolineano l’importanza delle elezioni per il mantenimento della stabilità nel Paese, l’Ue, gli Stati Uniti e la Turchia ribadiscono come il voto sia in contrasto con la Risoluzione 2254 Onu che richiede elezioni libere e giuste dopo la promulgazione di una nuova costituzione. In queste circostanze, la continuazione del conflitto siriano e il peggiorare della crisi umanitaria emergono come tragiche certezze per gli anni avvenire.
Articolo redatto da Sara Zanotta con la supervisione del dott. Andrea Dessì, Direttore del Programma Politica Estera Italiana dell’Istituto Affari Internazionali (IAI)