La guerra in Ucraina ha messo in evidenza un dato inequivocabile: lo stallo se non l’attuale impossibilità del dialogo fra le cancellerie occidentali, il governo di Mosca e gli interlocutori asiatici, anzitutto la Cina. Allo stesso tempo un principio sembra dimostrato dallo scenario creatosi un anno fa: il mondo può ritrovare un equilibrio pacifico solo in un confronto esteso, che non imponga visioni e interpretazioni esclusive o, peggio ancora, strategie egemoni. Se quest’ultimo fosse il reale obiettivo di anche uno dei soggetti coinvolti nell’attuale crisi fra l’Occidente e l’Oriente, lo scontro in atto sul terreno ucraino sarebbe solo la premessa di una irreversibile crisi globale.
Kiev è stretta fra i giganti di Mosca e Washington. E la dirigenza ucraina è consapevole che la superiorità militare non è realmente il dato oggettivo e risolutivo su cui puntare le proprie chance. L’Ucraina è stata aggredita. E questo è un fatto conclamato che nessuno può ignorare o negare. Meno nota all’opinione pubblica occidentale la complessità del mosaico etnico e storico dell’Ucraina a est del Dnipro (come in altre zone a ovest e sud-ovest di questa terra: la presenza delle minoranze polacche, magiare e romene), l’esistenza di nodi politici e sociali irrisolti (le regioni russofone e il nazionalismo di Kiev), perché se una certa visione del mondo ha da un lato ben presente la compattezza geografica del blocco eurasiatico, di cui la Russia è parte integrante, dall’altro ignora la complessità etnica, culturale, linguistica di Heartland, il “cuore del mondo” dalle rive del Volga fino al fiume Azzurro secondo la definizione del geografo inglese Halford Mackinder. Resiste cioè una visione semplicistica del Vecchio mondo che non prevede identità complesse, l’esistenza sotterranea di radici e il conseguente scorrere di linfe culturali molteplici. Senza le identità, senza le radici e la linfa (ricordiamo quanto scrisse in proposito Simone Weil), ogni radicamento è però inadeguato e la sua fragilità apre a soluzioni conflittuali. A Berlino o a Parigi, come a Roma, Varsavia o Bucarest la questione è ben nota: la storia del XX secolo con i suoi errori, per le sofferenze inflitte a interi popoli, ne è testimone.
Nell’attuale panorama diplomatico impegnato a fermare la guerra in Ucraina per raggiungere almeno una tregua che possa favorire una pace duratura e condivisa, non va ignorato il possibile ruolo della Santa Sede. Quella vaticana è una diplomazia autorevole, fondata sulla credibilità e sulle competenze della sua azione mediatrice. Ad essa si aggiunge, soprattutto sul piano morale, la voce di papa Francesco. Ma in Europa orientale le migliori intenzioni devono fare i conti con la storia, e con un quadro confessionale estremamente complesso. Papa Bergoglio rimane sulla carta un possibile mediatore. Un fatto è che la sua terzietà potrebbe non essere riconosciuta da tutti i soggetti coinvolti. Pensiamo solo alla contrapposizione secolare fra la Russia ortodossa e la Polonia cattolica. Gli Stati protestanti coincidono poi col nucleo dell’alleanza militare occidentale. E il patriarca di Mosca non ha esitato a condannare con parole durissime il sostegno dell’Occidente a Kiev. Dal canto suo papa Francesco non vuole e non può rinunciare alla vocazione apostolica di annunciatore di pace: una delle prerogative del suo ruolo spirituale universale. Egli proviene da una realtà, l’Argentina, fiera della sua indipendenza e che ha sofferto egemonie economiche e ideologiche esterne. Però la giovane Argentina non è l’Ucraina, area contesa da secoli, al centro delle “terre di sangue” secondo l’espressione dello storico americano Timothy Snyder. Non dimentichiamo inoltre che papa Bergoglio è un gesuita, e storicamente i gesuiti hanno svolto in quell’area dell’Europa orientale un ruolo di rischiosa mediazione. Ispirata in passato dai dettami della Controriforma, essa non fu sempre sensibile verso le specificità confessionali autoctone e, di conseguenza, accettata da tutte le parti. Basti ricordare alla missione di Antonio Possevino alla corte dello zar Ivan il terribile, nel confronto fra la Moscovia e i polacco-lituani, culminato nell’armistizio di Jam Zapolski (1582). I tempi sono cambiati (ma molti nodi restano) e il Possevino era forse troppo fiducioso sulla durata della propria mediazione. Diversamente papa Francesco è un uomo del discernimento, che conosce gli effetti delle guerre combattute sul campo e a distanza sulla pelle dei più poveri, e sa bene che gli interessi economici sono ben lontani dalla volontà di pace. In questo complesso e drammatico scenario geopolitico, la pace si deve perciò nutrire degli insegnamenti di Gesù, su cui poggiano i fondamenti etici e morali di tutte le Chiese cristiane.
La Chiesa cattolica ha ereditato dal Concilio Vaticano II una speciale apertura ai bisogni autentici del mondo, e ogni credente è chiamato ad aprire le pagine del Vangelo sulla propria quotidianità: i suoi contenuti sono senza dubbio più rassicuranti di un trattato di alleanza o di mutua cooperazione. Se fra Mosca, Washington e Kiev ogni mediazione appare ancora impossibile, e la guerra è ritenuta l’unica strada percorribile per arrivare a una tregua utile alle parti e non umiliante, ricordiamo allora quanto affermato da un documento papale, la “Pacem in Terris“: l’ultima enciclica di papa Giovanni XXIII, pubblicata sessant’anni fa l’11 aprile 1963, quando il Papa del dialogo ecumenico con i fratelli orientali, il Papa del Concilio Vaticano II, era minato dal cancro. Non esiste una guerra giusta: ogni guerra è un assurdo atto di violenza irrazionale. La pace in terra si costruisce sulla giustizia, sulla solidarietà, sul rispetto delle minoranze, sulla cooperazione fra i popoli ed essa “può venire instaurata e consolidata solo nel pieno rispetto dell’ordine stabilito da Dio”. Papa Francesco questo lo sa e ce lo ribadisce, nel suo tentativo di impedire che la Terza guerra mondiale a pezzi possa saldarsi in un’unica conflagrazione.