La legge 68 del 1999, ovvero la normativa riguardante il diritto al lavoro delle persone con disabilità, per la prima volta, aveva parlato molto chiaramente di “collocamento mirato”, ossia una modalità inedita per favorire l’accompagnamento al lavoro delle stesse. Quest’ultimo, secondo la già menzionata legge, si basa su una valutazione di quelle che, in termini burocratici, vengono definite “capacità residue”, unite ad una presenza più capillare dei servizi pubblici per l’impiego. Quella legge, nata oltre vent’anni fa, si basava su una visione molto inclusiva, con l’intento di mettere la persona con disabilità e la valorizzazione delle sue attitudini al centro del percorso di inserimento lavorativo, aprendo anche un nuovo percorso nell’ambito della percezione delle disabilità in ambito professionale.
In altre parole, dei passi avanti sono stati fatti ma, dopo oltre due lustri, è necessario impegnarsi collegialmente con rinnovato spunto per eliminare le disparità residue che, purtroppo, ancora oggi, rendono più difficile l’accesso al mondo del lavoro per le persone con disabilità. Questo obiettivo di civiltà può essere raggiunto innanzitutto cambiando l’attuale concezione della fragilità nel mondo del lavoro. Mi spiego meglio: l’inclusione di chi ha una disabilità nel mondo produttivo, non deve essere percepita come un peso o un mero obbligo normativo a cui assolvere ma, al contrario, una ricchezza per tutto il sistema Paese nel suo complesso. Se saremo in grado di compiere questa evoluzione culturale, potremo dirci pienamente democratici e inclusivi. Ogni cittadino, indipendentemente dalle proprie condizioni particolari, deve avere il diritto di realizzare le proprie ispirazioni, anche e soprattutto attraverso l’attività lavorativa.