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Come affrontare la perdita di una persona cara

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Secondo il sociologo Ariès l’impossibilità di condividere il proprio dolore legato alla perdita di una persona cara rende più forte e pesante il trauma legato a quest’evento; la morte così diventa il principale tabù del nostro tempo al punto che sono in tanti a cercare di dissociare la vita dalla morte chiudendosi nell’individualismo e nell’isolamento. Vi è un rifiuto nei confronti della morte per cui cade in un’elaborazione del lutto, che può essere sano o patologico, attraverso un percorso bloccato o irrisolto, invece che riuscito o risolto. Può infatti accadere che dopo un lutto ci sia una crescita post-traumatica che si traduce in un aumentato apprezzamento della vita, nella capacità di stabilire relazioni significative, in una maggiore forza interiore, nella ricerca di una vita più spirituale. Seguendo infatti il metodo di D. Klass e il Modello Duale di M. Stroebe, del tutto diversi da quello di Freud (che considerava inevitabile per una possibile elaborazione positiva del lutto il distacco dalla persona deceduta) non bisogna pervenire allo scioglimento del legame con la persona cara scomparsa. Al contrario, bisogna mantenere il legame (un legame che continua), certamente in modo non patologico; ciò può accadere attraverso quattro modalità: sentire la presenza della persona scomparsa, parlare con questa, sentire nel defunto una guida morale, parlare della persona defunta.

Nel Modello Duale di Stroebe infatti si prevede un processo di adattamento alla perdita attraverso un periodo di rifiuto, pianto e altro e un periodo di ricostruzione e crescita. Relativamente alla crescita, Tedeschi e Calhoun (2004), osservando varie reazioni alla perdita, hanno messo in evidenza come alcuni non solo dimostrato di saper resistere, ma addirittura hanno avuto un cambiamento positivo ed hanno così sviluppato un modello teorico che hanno definito “Crescita post-traumatica (Post Traumatic Growth). Si sono così orientati allo studio dell’elaborazione del lutto attraverso il percorso riuscito o risolto, un percorso di crescita che conduce ad un cambiamento psicologico positivo come risultato di una lotta contro circostanze di vita altamente impegnative e sfidanti, un cambiamento nel modo di vedere il mondo e di comprendere il posto da loro occupato in questo.

È chiaro che la morte improvvisa e inattesa di una persona cara sconvolge e modifichi gli schemi che guidano l’esistenza e che si possa generare una crisi psicologica che può condurre anche ad una perdita generale del significato della propria vita. Ciò comporta l’urgenza di una “ricostruzione” di strutture schematiche più forte e resistenti. Nella ricostruzione un rilevante può essere dato dalla Logoterapia e Analisi Esistenziale di V. Frankl (cui farò riferimento), capace di trascendere il limite attraverso processi trasformativi di crescita e ristrutturazione di significati. Frankl affrontò infatti la problematica della ricerca di senso, strettamente correlata con la crescita post-traumatica. Gli studi di Dell’osso del 2013 evidenziano che la perdita di una persona amata può essere seguita da un disagio clinicamente significativo sia dal punto di vista fisico sia dal punto di vista mentale. Parkes nel 2007 ha messo in evidenza come il lutto complicato possa causare disturbi mentali fino al suicidio in forma crescente soprattutto nelle madri che perdono un/una figlio/a.

Negli ultimi due decenni si è sviluppato un interessante dibattito scientifico sui temi della perdita e del lutto che ha condotto alla graduale definizione di criteri diagnostici per quadri patologici via via nominati “traumatic grief”, “pathological grief”, “complicated grief”, fino ad arrivare a quello che oggi viene proposto come PDG dal DSM-5 TR, traducibile in italiano come “disturbo da lutto prolungato”, che è tale qualora il disagio superi la durata di un anno. Riguardo al fronteggiamento di tale disturbo, meriterebbe una trattazione a parte la teoria portata avanti dalla professoressa M. L. De Luca, presidente della “Grief & Growth Therapy”. I sintomi sono: un persistente desiderio o nostalgia della persona deceduta, tristezza o dolore emotivi intensi dopo la perdita, preoccupazione per il deceduto, preoccupazione per le circostanze della morte. Il trauma non nasce dall’evento in sé, ma dal senso d’impotenza dell’Io che si scopre incapace di gestire gli eventi esterni, cosicché l’evento può diventare evento traumatico. È così che negli ultimi venti anni, a partire dal 2004, Tedeschi, Parkes e Calhoun hanno portato avanti il concetto di post-traumatic growth o crescita post-traumatica che è considerata l’antitesi semantica del disturbo da stress post-traumatico. La crescita prevede un cambiamento nella percezione di sé o fiducia in sé, un cambiamento nelle relazioni interpersonali ed anche nella filosofia di vita. Diventa importante non sentirsi più vittima ma survisor (o persona che ha superato il trauma). Da questa nuova considerazione di sé consegue una diversa percezione di sé, la scoperta di essere più forti, ma al tempo stesso più vulnerabili e più bisognosi di relazione interpersonale e sociale. Il vittimismo infatti porta all’isolamento; superarlo fortifica perché senza gli altri ci si sente più fragili. Aumentano così le espressioni di emozioni, l’accettazione di un aiuto, l’empatia, la compassione e l’altruismo. Così il trauma diventa quasi un dono e aiuta a capire meglio il dolore altrui e ci spinge a cercare dialoghi spirituali. Elaborare un lutto comporta una rielaborazione emotiva del vissuto di chi scompare e alla psicoterapia si chiede di evidenziare ciò che ostacola il recupero degli interessi e della progettualità del soggetto colpito dal lutto. Fare questo dovrebbe condurre a stabilire con la persona deceduta un legame che continua.

Bisogna trovare un “perché” nella vita nonostante il dolore e la perdita; ciò stimolando la capacità di cogliere comunque la bellezza della vita e il valore del proprio cammino esistenziale nonostante il dolore e la perdita. Secondo Frankl l’uomo, per adempiere in modo positivo alla ricerca del vero significato della propria esistenza, dev’essere capace d’innalzarsi al di sopra di sé stesso giudicando i propri atti in termini morali ed etici, tramite l’autodistanziamento. La logoterapia deve aiutare l’uomo a porsi di fronte alle proprie responsabilità, cercando di chiedersi e di comprendere quale sia il suo compito, la sua vita gli chieda di fare dando un significato a ciò che fa, alle proprie azioni. Solo cercando di dare senso e trovare senso e significato attorno a sé l’uomo da patiens potrà diventare agens, capace di agire e di soddisfare il bisogno insito in ognuno di noi di dare significato alla propria esistenza. È di questa humanitas che è permeata la teoria frankliana e si ipotizza quindi che un intervento di tipo logoterapeutico possa aiutare le persone con disturbo da lutto prolungato a riscoprire e ritrovare sé stesse, favorendo una possibile apertura all’altro in modo che l’interlocutore riesca a liberare ed esternare una gioia riuscendo a con-dividere il suo vissuto positivo con l’altro. L’ascolto empatico mette l’altro nella condizione di esplorarsi per trovare la sua verità. La grandezza e la bellezza della logoterapia sono legate all’aspetto per cui ad ogni situazione, anche la più drammatica, si può rispondere con la forza della vita: è la vita che insegna pian piano i significati più reconditi, è in essa che si può cogliere il senso dell’essere. È la vita che pone le domande di senso alle quali l’uomo può e “deve” rispondere, consapevole di poter fare riferimento a due “strumenti” efficaci che sono tra loro interconnessi: la libertà e la responsabilità. È la libertà dalla sofferenza acuta che consentirà alla persona di autodistanziarsi; è la libertà per un compito di senso che indurrà l’uomo in presenza di lutto a ridefinire l’evento di morte, ristrutturandone i significati, anche più reconditi, e riformulando lo stesso in un’accezione avente come leitmotiv e direzione la propria crescita.

Frankl, infatti, «lontano dal banalizzare il dolore umano, […] al contrario, ne afferma il suo intrinseco valore solo a condizione che si riesca a conferirgli un significato. Solo così si può assicurare quel passaggio da una sofferenza mortificante e deputata ad annientare la vittima di turno, a una sofferenza che, approdando a un senso, possa consentire di proclamare un incondizionato sì alla vita. La logoterapia educa alla libertà nella responsabilità, a rispondere in modo libero a situazioni problematiche, come, ad esempio, la realtà della morte. Grazie ad una funzionale elaborazione del lutto, la morte viene a far parte della vita in maniera “viva”, si riesce a vivere il legame con la persona deceduta come legame che continua. La patologia viene “sconfitta” e si scoprono nella propria vita orizzonti insospettabili di profondo significato.

Prof. Alfredo Altomonte: