Tempo fa, su queste pagine, si era analizzato il modello di crescita cinese, partendo dall’analisi compiuta da Michael Pettis, professore di finanza all’università di Pechino, che descriveva come venga mantenuto il tasso di crescita del Paese partendo dalle decisioni governative.
In pratica “Il governo stabilisce una cifra e poi i livelli inferiori di governo devono fare ciò che è necessario per raggiungerla” cosa che mostra quale sia il legame, strettissimo, tra la politica e l’economia nello stato asiatico.
Oggi Weiying Zhang, che insegna economia nello stesso istituto, sembrerebbe indicare una motivazione opposta, come riportato recentemente da Linkiesta, descrivendo il successo del modello cinese “nonostante” e non “grazie a” una forma di governo illimitata e un settore statale altamente inefficiente.
Sembra strano ma le due cose non si escludono a vicenda poiché anche se il Governo indicasse i livelli di crescita da raggiungere, come indicato dal primo, e a cascata ogni livello di governance si adoperasse per raggiungerlo ecco apparire le motivazioni per la conseguente deregulation e liberalizzazione dei settori economici alla base del discorso di Zhang che, in effetti, analizza il perché si riesca a raggiungere e mantenere una crescita media elevata “nonostante” la persistenza di una forma statale autoritaria ma, di fatto, estremamente libera dal lato dell’iniziativa economica.
Ciò detto, nel 2021, è prevista una crescita del sistema economico intorno al 8.4% contro un 6.4% tendenziale dell’economia USA che, comunque, non permetterà, ancora, alla Cina nemmeno di raggiungere il livello statunitense, poiché il PIL cinese è oggi pari a circa il 66% di quello USA (e a 7 volte quello italiano in valore assoluto, per intenderci); va ricordata, inoltre, anche la differenza sostanziale dei due modelli di sviluppo esistenti tra i due colossi economici: uno orientato all’export, la Cina, e uno orientato alla domanda interna, gli USA, come ben descrivono i saldi delle rispettive bilance commerciali, fortemente in attivo la prima e fortemente in passivo la seconda.
È evidente che questa caratteristica porti lo stato asiatico ad essere estremamente dipendente dalla domanda estera e, pure, dalle politiche monetarie americane per via dello status del dollaro come moneta per gli scambi internazionali.
Credere, quindi, in una reale competizione tra le due potenze a livello economico non è realistico proprio per il legame di interdipendenza che i due modelli opposti creano a livello di sistema, i contrasti nascono in ambito geopolitico poiché la Cina sta cominciando a portare a terra una politica estera molto aggressiva per trovare nuovi mercati di sbocco e poter ridurre la sua dipendenza da Washington sia a livello di export tout court sia a livello finanziario.
La questione finanziaria, infatti, sta diventando molto importante, anche per via di tendenziali di crescita inflazionistica americana che si attesta introno al 5,4% su base annua, mentre in Cina si verifica un caso quasi opposto con un tendenziale inflazionistico al 1,1%. Ora su questi dati si snoda la questione odierna.
Il dato statunitense è dovuto all’impennata improvvisa dei prezzi avvenuta negli ultimi mesi, le cause possono benissimo essere trovate a livello esogeno, come l’aumento del prezzo delle materie prime spinto proprio dalla domanda cinese, e da una crescita momentanea dovuta alla riorganizzazione di filiere produttive rimaste bloccate per diverso tempo a causa dei provvedimenti attuati per fronteggiare l’emergenza sanitaria in corso.
In uno stato dove non esistano correttivi governativi per calmierare i prezzi a un aumento della domanda segue un automatico aumento dei prezzi se l’offerta non riuscisse a soddisfarla e viceversa, quindi una volta che le filiere produttive tornassero a regime si verificherebbe il fenomeno inverso con una calo del tasso d’inflazione tendenziale.
Per queste ragioni, al momento, la “fiammata” di là dell’oceano non sta impensierendo più di tanto gli ambienti finanziari né, sembra, le decisioni di politica monetaria della FED dove, comunque, continua lo scontro tra “falchi” rigoristi e “colombe” per iniziare un programma di tapering, cioè di riduzione degli stimoli monetari, entro la fine dell’anno anche se, dal lato del mercato del lavoro, potrebbe essere ancora presto per metterlo in atto.
Dal lato del Dragone l’inflazione, invece, è calata rispetto al livello preventivato, cosa che potrebbe spingere la banca centrale a nuovi interventi espansivi anche per contrastare il debito montante all’interno dei confini.
Se, infatti, il debito pubblico cinese si attesti al 45.8% del PIL a fine 2020 mentre gli USA hanno superato il livello del 100% quello che preoccupa è il debito aggregato dove la Cina supera di gran lunga gli americani che da anni ha superato il livello del 300% del PIL (e non sembra che vi sia una frenata sulla sua crescita) rispetto al 248% odierno in USA, che però non desta particolari preoccupazioni sia per la capacità di produrre ricchezza americana sia per l’appetibilità dei suoi bond governativi.
Da tempo si parla della questione relativa al finanziamento dell’economia da parte dei canali tradizionali e dello shadow banking attuato dalle banche commerciali liquidando, di fatto, le obbligazioni emesse dalle società locali, cosa che espone il sistema finanziario a un grado di rischio molto più elevato di quello che sia possibile rilevare con i test attuali sugli attivi bancari.
Qualcuno potrebbe dire “sì ma la maggior parte è debito privato e non di stato, quindi…”. Questo è un errore molto comune, soprattutto in certe aree di pensiero economico più liberali, perché il settore creditizio è centrale in ogni modello di sviluppo permettendo l’incontro tra la domanda di liquidità e l’offerta della stessa che si manifesta nei depositi e negli investimenti gestiti.
Il default del sistema, dovuto a un’insolvenza, porterebbe a un cortocircuito generale capace anche di bloccare completamente il settore industriale per mancanza di risorse.
Non è una mera questione di protezione dei risparmi, che comunque è centrale, se saltasse uno degli intermediari principali verrebbero meno non solo i depositi a vista (i conti correnti, per essere chiari) ma anche tutto il gestito diretto come il caso Lehmann Brothers ha mostrato al mondo.
Per queste ragioni un elevato tasso di debito privato è potenzialmente nuovo debito pubblico laddove si rendesse necessaria una ricapitalizzazione del settore creditizio per far fronte agli impegni presi con i correntisti, che siano persone fisiche o imprese, per evitare il crollo di tutta la struttura economica di un Paese.
Quindi oggi la Cina è rischiosa? La risposta è NI. Nel senso che esiste un pericolo potenziale ma finché il sistema produttivo avrà uno sbocco e il sistema economico continuerà a crescere in maniera sostenuta no di certo ma, vista la struttura, come detto la cosa dipenderà dalla capacità dei partner commerciali di assorbire la produzione e, ovviamente, di pagarla, per dirla con l’accetta.
In primis, tra i partner, ci sono proprio gli USA ma sono seguiti a ruota da tutti gli altri paesi sviluppati e l’interdipendenza tra di essi garantisce l’equilibrio. Il quadro potrebbe modificarsi quando e se la Cina riuscirà a costruire un proprio mercato interno a sostegno della crescita ma, stanti i livelli di PIL pro-capite odierni pari a meno di un terzo di quello italiano e addirittura a meno di un sesto di quello americano, la strada sarà ancora molto lunga.