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La centralità della libertà di coscienza

Secondo il catechismo della Chiesa Cattolica l’uomo ha il diritto di agire in coscienza e libertà, per prendere personalmente le decisioni morali. L’uomo non deve essere costretto ad agire contro la sua coscienza. Ma non si deve neppure impedirgli di operare in conformità ad essa, soprattutto in campo religioso. E’ utile ripensare a com’era la Chiesa cattolica prima del Concilio. Una Chiesa con una struttura quasi monarchica. Fondamentalmente clericale. Dominata, teologicamente e pastoralmente, dall’Europa. La Bibbia ancora tabù per il popolo cristiano. La Messa ancora solo in latino, e con il celebrante che voltava le spalle all’assemblea. Una religiosità ridotta ai precetti, alle regole, a una morale inquisitoria e per niente misericordiosa. Una netta chiusura alle altre Chiese, alle altre religioni. Un atteggiamento ancora improntato all’ostilità, se non alla condanna, nei confronti del mondo, della scienza, della cultura moderna.

Ebbene, dopo il Vaticano II, niente di tutto questo restò come prima. E non perché fosse stata stravolta la Tradizione o messi da parte i dogmi, le leggi; ma perché i padri conciliari avevano saputo leggere il Vangelo e la storia umana con occhi nuovi: un Vangelo naturalmente immutabile, intoccabile, ma da annunciare con un linguaggio adatto agli uomini contemporanei. Come ripeteva sempre Giovanni XXIII: “Non è il Vangelo che cambia, ma siamo noi che cambiamo e quindi siamo in grado di comprendere il Vangelo meglio e più a fondo di prima”.

Cambiò l’immagine stessa di Chiesa, che la costituzione dottrinale “Lumen gentium” presentava ora come “sacramento universale di salvezza. Il popolo di Dio messo prima della gerarchia. L’autorità pontificia affiancata dal collegio episcopale. La parola di Dio ritrovò la sua centralità nella vita ecclesiale.

Ci fu la riforma liturgica. Venne riconosciuto il ruolo attivo dei laici, rivalutata la libertà di coscienza. Sono passati sessant’anni dal Concilio, un tempo enorme per una società che vive tutto in fretta e dimentica presto. Ma, proprio per questo, bisogna tornare a quell’11 ottobre del 1962. Bisogna ricordare che cosa significò quel giorno. Da allora sono già cresciute due, tre generazioni, che hanno visto quell’evento soltanto in tv, in un documentario o in qualche ricostruzione storica.

E i giovani, soprattutto i giovani? Sapranno poco o niente di quando la Chiesa cambiò profondamente il volto del cattolicesimo, il suo modo di pregare, di annunciare il Vangelo, di viverlo, di rapportarsi alle altre Comunità cristiane, alle altre religioni. E anche – come disse con una efficacissima battuta il cardinale Roger Etchegaray – di quando la Chiesa cominciò ad “abbassare i suoi ponti levatoi”, e quindi a uscire dal suo secolare isolamento.

Ed ecco perché, conoscendo quella storia, sarà possibile farsi un giudizio più obiettivo sulla Chiesa di oggi. Senza nascondersi i gravi problemi che la attanagliano, la crisi che sta attraversando. Ma senza neanche dimenticare il cambiamento epocale che, grazie al Concilio, la Chiesa seppe operare. Avendo avuto l’umiltà e il coraggio di chiedere perdono per gli errori del passato, e di ripensarsi, di rinnovarsi.

Cerchiamo allora di ripercorrere questi sessant’anni, o perlomeno i momenti essenziali, da quell’11 ottobre ai nostri giorni, al pontificato di Francesco. Impegnato – come si vedrà – in una sfida senza precedenti contro quanti intenderebbero addirittura cancellare il Vaticano II. E comunque, a voler fare una prima considerazione di ordine generale, nessuno potrà negarlo. Malgrado scandali penosi come la pedofilia, conflitti anche alla luce del sole e anche ai massimi vertici ecclesiastici, polemiche furibonde e situazioni di mala gestione mai risolte, nessuno potrà negare che, ciò che di vivo e di vitale ha oggi la Chiesa cattolica, sia dovuto alla “rivoluzione” avviata dal Concilio. Anzi, di più, nessuno potrà negare che la Chiesa cattolica di oggi non sarebbe la stessa, se non ci fosse stato il Vaticano II. Lukas Visher, autorevolissimo esponente della Chiesa luterana svizzera, arrivò a dire che, quanto era successo nel periodo conciliare, era paragonabile alla “rottura di una diga”.

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