Gesù di Nàzaret, evidenzia il Catechismo della Chiesa Cattolica, non insegna una visione del mondo, ricavata dalla comune esperienza umana, un insieme di verità religiose e morali, frutto di riflessione particolarmente penetrante. Si presenta piuttosto come il messaggero di un avvenimento appena iniziato e in pieno svolgimento. Il suo, prima di essere un insegnamento, è un annuncio, un grido di gioia: viene il regno di Dio! Una semplice frase, collocata in apertura del vangelo di Marco, riassume tutta la sua predicazione: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo”. La Chiesa cattolica è arrivata a un momento cruciale della sua storia. Con il futuro spalancato davanti, dovrà pensare a come riproporre il messaggio di Cristo, le verità della fede, all’uomo contemporaneo. E non sarà solo una questione di linguaggio.
La Chiesa dovrà anche pensare a come farsi ascoltare, in una società sempre più estranea a un discorso religioso; una società che anzi tenderà, per la sua stessa natura agnostica, a far della parola di Dio una delle tante, e, delle Beatitudini, solo un elenco di “buone intenzioni”. Sarà perciò una situazione drammaticamente inedita, quella in cui verrà a trovarsi la Chiesa. Non avendo più solidi bastioni a difenderla, né un contesto sociale a sorreggerla, né una comunità civile a rappresentarne l’identità. Dunque, dovrà vivere di Dio, e renderlo presente, in un mondo senza Dio. Ma come? Potrà farlo, la Chiesa, potrà riuscirci, forte della promessa divina. Ma questa volta, molto più che nel passato, avrà assolutamente bisogno del popolo cristiano nella sua totalità. Tutti! Non solo i chierici, non solo i religiosi, non solo le schiere di laici “organizzati”, i gruppi, i movimenti, ma proprio tutti. In un mondo senza Dio, indifferente a Dio, la Chiesa potrà compiere la sua missione solamente attraverso la testimonianza di cristiani, per i quali il credere nel Vangelo torni ad essere una scelta libera, consapevole, e quindi a far parte della loro vita quotidiana.
Lo dice con altre parole, il documento preparatorio del Sinodo dei vescovi sulla sinodalità, ma il senso è lo stesso. “La capacità di immaginare un futuro diverso per la Chiesa e per le sue istituzioni all’altezza della missione ricevuta dipende in larga parte dalla scelta di avviare processi di ascolto, dialogo e discernimento comunitario, a cui tutti e ciascuno possano partecipare e contribuire”. Questo, però, richiederà un coraggioso cambio di direzione. Richiederà che la Chiesa recuperi, istituzionalmente e pastoralmente, quella dimensione laicale, che del resto è propria del cristianesimo. Così come richiederà che la Chiesa – e qui torniamo al punto di partenza – si decida ad attraversare il guado, e accompagni la maturazione di una nuova religiosità, dove confluiscano sia quella tradizionale e sia quella plasmata dal Concilio Vaticano II.
L’una, naturalmente, dovrà essere purificata dall’ossessione di sempre, una fede solo norme, solo precetti, ridotta a un “sistema di abitudini”, come diceva Benedetto XVI; ma anche salvaguardandone pratiche e regole, dove ci sono valori donati da Dio, e che orientano nel cammino di fede. E, insieme, facendo fruttificare la religiosità nata, nello spirito del Concilio, da una coscienza più libera, più responsabile, anche perché sganciata dalla tutela clericale; ma vigilando perché, se rifiutasse le regole per principio, rischierebbe di rimanere chiusa nell’immanenza della propria ragione o dei propri sentimenti.
Ebbene, se condotta con determinazione, e in profondità, sarebbe davvero una grande “operazione” ecclesiale. Intanto, farebbe da diga alla marea dilagante dell’indifferenza religiosa, un pericolo peggiore dell’ateismo, più insidioso, perché non è nemmeno una scelta, si vive senza bisogno di Dio, facendo a meno di Dio. E poi, verrebbero coinvolti quel miliardo e trecento milioni di credenti sparsi nel mondo, abbandonati finora a sé stessi, spesso in balia di parroci-padroni. Si sentirebbero finalmente considerati, membra vive della Chiesa universale, e protagonisti in un’opera che potrebbe decidere del futuro del cattolicesimo.
Ciascuno con i doni e i limiti che ha, ma con la possibilità di dare comunque il proprio contributo. E sarà grazie a questi credenti, al loro essere testimoni del Vangelo, che la Chiesa potrà riacquistare credibilità nel parlare di Dio. E nell’offrire all’uomo d’oggi una nuova sintesi tra esperienza terrena e trascendenza. E, all’umanità del Terzo Millennio, ciò di cui ha più bisogno, un supplemento d’anima. Qualcuno, esagerando, parla di una super-religione. Sociologi e teologi, invece, di una “mondanizzazione” della religione, ricorrendo come al solito a uno slogan, e sostenendo stavolta che “non é più possibile continuare a dire Dio come lo si diceva cinquanta, cento anni fa”. E questo, per certi versi, è vero: non si può non ripensare il messaggio cristiano nel diverso contesto che si è venuto a creare, e nella cultura che lo permea.
Non si tratta di inventare un nuovo Vangelo, ma di comprenderlo in modo nuovo, coglierne l’essenzialità, la freschezza, l’estrema duttilità nel rapportarsi ogni volta a situazioni differenti. Sarebbe però un distorcere la dinamica dell’Incarnazione, e un falsare il vero senso di quel carisma per eccellenza che è la carità evangelica, se si riducesse la missione del cattolicesimo a quella di una ONG, di una agenzia umanitaria. Soprattutto oggi, soprattutto in questo tempo di “vuoto” interiore, il cattolicesimo è chiamato semmai a un più intenso impegno “contemplativo”. Che non significa rifugiarsi in una spiritualità intimistica, individualistica, e neppure estraniarsi dai problemi degli uomini, bensì ritornare a quello che Giovanni Paolo II definiva il “primato della grazia”, il primato della santità.