Dieci anni fa, in piazza San Pietro, venivano canonizzati Giovanni Paolo II e Giovanni XXIII. Non è certo una novità procedere così, canonizzare insieme due o più nuovi santi. Può aver sorpreso la decisione di canonizzare nella stessa occasione due papi, eppure oggi, dieci anni dopo, possiamo scorgere in quella scelta un valore poco notato, ma importantissimo. C’è in questo un messaggio che io percepisco forte e chiarissimo, che allora non colsi e che assume per me una autentica valenza profetica.
Giovanni XXII, il papa della Pacem in Terris, è stato il testimone degli orrori della II Guerra Mondiale, riassunti dal fatto che si adoperò per salvare tantissimi ebrei dalla follia nazista. Giovanni Paolo II, il papa che si suol dire che ha contribuito enormemente alla sconfitta del comunismo reale, quello realizzato in Unione Sovietica, è stato in fin dei conti il papa di questa specifica “teologia della liberazione” dall’oppressione totalitaria sovietica nell’ex Unione Sovietica e fuori di essa, nei Paesi del Patto di Varsavia. Insieme rappresentano un impegno davanti alle follie del Novecento. E oggi non possiamo scorgere un ritorno del Novecento, con i suoi muri, i massi che si pongono perché si impedisca l’apertura del sepolcro, della nostra vita, dei nostri mondi, all’Altro, all’incontro, al vivere insieme?
La scelta di dieci anni fa così diviene un messaggio a chi vive gli inizi terribili del Terzo Millennio: il Novecento, con i suoi orrori, non è dietro di noi, è qui, con noi, intorno a noi, nelle nostre e altrui scelte.
I due volti di Giovanni XXIII e di Giovanni Paolo II sono forse i due volti che meglio riassumono un impegno sia “contro” sia “per”. Contro l’abuso, la sopraffazione, ma anche per il rispetto, la fratellanza. Il Novecento è il stato il secolo che ha creduto nelle false verità assolute, contrapposte, inconciliabili. Il Terzo Millennio non è diventato il tempo della Misericordia. Dunque parlare di un ritorno del Novecento, in forme diverse ma sempre temibili, fatto di negazioni, di assolutismi che ci assediano e con i quali assediamo.
E’ interessante notare che la più famosa enciclica di Giovanni XXIII non parla di “terra”, ma di “terre” anche se il più delle volte se ne parla al singolare, anche in considerazione del fatto oggettivo che il testo comincia proprio così; “La Pace in terra, anelito profondo degli esseri umani di tutti i tempi”. Eppure Terris è plurale, perché plurale è il mondo e le terre che lo compongono e nella pluralità si compone l’ordine, la convivialità, il vivere insieme. In un’unica terra si può pensare a un unico ordine, un unico sistema, una sola possibile organizzazione sociale. In un mondo plurale non è così.
Il plurale di Giovanni XXIII mi fa ricordare l’intuizione geniale, rivoluzionaria, epocale, del Documento sulla Fratellanza Umana di Abu Dhabi: “La libertà è un diritto di ogni persona: ciascuno gode della libertà di credo, di pensiero, di espressione e di azione. Il pluralismo e le diversità di religione, di colore, di sesso, di razza e di lingua sono una sapiente volontà divina, con la quale Dio ha creato gli esseri umani. Questa Sapienza divina è l’origine da cui deriva il diritto alla libertà di credo e alla libertà di essere diversi. Per questo si condanna il fatto di costringere la gente ad aderire a una certa religione o a una certa cultura, come pure di imporre uno stile di civiltà che gli altri non accettano”.
Ma questo plurale ha bisogno di scendere in ogni realtà, pluralizzandola, liberandola dalle carcasse vuote dell’ordine totalizzante, come disse a Varsavia Giovanni Paolo II in occasione del suo primo pellegrinaggio polacco: “Scenda il tuo Spirito e rinnovi la faccia della terra, questa Terra”. Il decisivo “questa Terra”, ci rimanda al plurale di Terris, e invoca un rinnovamento non generico, identico per tutti: con queste parole pronunciate nella capitale della Repubblica Popolare di Polonia, Giovanni Paolo II risvegliò i polacchi dalla disperazione.
Chi ci risveglia oggi dalla disperazione che ci rinserra dietro muri che pretendono di sbarrare il passo agli uomini ma non alle merci, dai massi delle contrapposizioni etniche, tribali, dalle guerre sante? Ricordano quel giorno di dieci anni i problemi dell’oggi e gli impegni da profondersi in questo mondo, in queste terre, si vedono meglio, con più nettezza.