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Il cambiamento di scenario che ha rinnovato la Chiesa

Con il Concilio Ecumenico Vaticano II la Chiesa cattolica spalancò porte e finestre nel dare l’avvio a un nuovo Concilio. Il 21° Concilio ecumenico nella storia bimillenaria del cristianesimo. Il secondo – da qui il suo nome – a svolgersi in Vaticano. Dopo che il primo era stato forzatamente interrotto nel luglio del 1870 dalle cannonate italiane contro le mura di Porta Pia. Cominciava così la Grande Avventura, nata dall’intuizione e dall’audacia profetica di Giovanni XXIII. Ma, va anche detto, cominciava con un carico di difficoltà non indifferente: sia per le tante incognite che, come in ogni novità, gravavano sul suo futuro; sia, più ancora, per i settanta schemi sfornati dal lavoro preparatorio, e dov’era evidente l’impronta fortemente conservatrice della Curia romana.

La stessa cerimonia di apertura, con la sua “sovrabbondanza” di fasto cerimoniale e di maestosità liturgica, sapeva non solo di antico, di barocco, ma – ed è quel che più colpiva – di un qualcosa di tenacemente ancorato a un passato che molti, troppi, nella gerarchia ecclesiastica, non volevano assolutamente toccare. Eppure, malgrado il Vaticano II fosse ancora tutto da scrivere, si avvertiva nell’aria una sensazione, anzi, di più, una voglia di nuovo, di diverso. Era solo l’inizio, ma quell’inizio – a leggerlo in profondità, senza paraocchi – portava i primi segni di un cambiamento di “scenario” rispetto a com’era prima. E io, da cronista dell’Agenzia Ansa, ebbi l’enorme fortuna di vedere e raccontare tutto questo. Frenando a fatica l’emozione di vivere quel momento storico. Com’era già storia, visibilmente, la prima immagine di quell’11 ottobre.

Dal Portone di Bronzo, e sbucando poi da sotto il colonnato, usciva un corteo che sembrava non finisse mai. I 2.500 vescovi procedevano lentamente, solennemente, verso il centro di piazza san Pietro. Le mitre tutte bianche, ma le facce anche nere, anche olivastre, e perfino gialle. Si capiva ch’erano vescovi autoctoni, nativi dell’Africa, dell’America Latina, dell’Asia: e non più, come anche nell’ultimo Concilio, presuli europei ch’erano stati “esportati” nei territori di missione per presiederne la vita ecclesiale. Una Chiesa universale. Non poteva esserci una raffigurazione più autentica, più immediatamente percepibile, di una Chiesa non più solo europea, non più solo occidentale, ma finalmente universale. Già in quel momento, la Chiesa cattolica appariva diversa da quella dei secoli passati, diversa anche da quella del giorno prima.

Durante la fase preparatoria, un vescovo della Polinesia aveva scritto scusandosi di non poter proporre nulla vivendo ancora “tra popolazioni dell’età della pietra”. Ma adesso quel vescovo era lì, nel centro della cattolicità, a rappresentare il suo popolo. Ed era appunto quell’insieme di esperienze, piccole o grandi che fossero, era quella straordinaria varietà di razze, di lingue, di culture, di tradizioni, era tutto questo a far scoprire la ricchezza di una Chiesa realmente mondiale, e non più divisa tra primi della classe e quelli degli ultimi banchi. La lunga teoria di vescovi si dirigeva verso l’obelisco; poi, con una svolta ad angolo retto, puntava diritto al portone della basilica vaticana. E, lì dentro, balzavano subito agli occhi altre immagini inedite. Altri significativi cambiamenti di “scenario”. C’erano re, capi di Stato e di governo, ma ora soltanto come ospiti, invitati: e non più, come in passato, quando il potere temporale pretendeva di immischiarsi nelle vicende della Chiesa, e gli imperatori potevano addirittura convocare le assise ecumeniche e comunque parteciparvi con diritto di voto consultivo. E, lì accanto, c’erano gli osservatori delegati delle altre Chiese cristiane: non più considerati come eretici, “fratelli separati” da riportare all’ovile, ma compagni di viaggio in un comune cammino verso la ricomposizione dell’unità.

E quindi, l’immagine più forte, il momento decisivo per capire quanto di rivoluzionario stesse accadendo. Cioè, il discorso di Giovanni XXIII, un discorso tutto rivolto a proiettare il Concilio in una dimensione pastorale, missionaria, positiva, ecumenica. Le critiche ai “profeti di sventura”. La distinzione tra la sostanza dell’antica dottrina del “depositum fidei” e la formulazione del suo rivestimento. E l’esortazione alla Chiesa ad avere verso il mondo un atteggiamento ispirato più alla “medicina della misericordia” che non alla “severità”, non a “nuove condanne”. Infine, il “balzo in avanti” che il Vaticano II avrebbe dovuto compiere verso una penetrazione dottrinale e una formazione delle coscienze, in corrispondenza più perfetta di fedeltà all’autentica dottrina.

Gianfranco Svidercoschi: