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Brand equity e brand value: cosa sono e come si valutano

Da qualche giorno gira la notizia che alcuni marchi, molto noti, avrebbero incrementato enormemente il loro valore, misurato in miliardi di dollari americani. Il caso più eclatante è quello dell’app TikTok che, nel 2021, avrebbe registrato una crescita del 215% a 59mld di dollari andando a lambire la top 10 stabilmente occupata ai primi posti da Apple, Amazon, Google e Microsoft, che insieme sommano la bellezza di 1’153mld (pari a oltre una volta e mezza il PIL della Svizzera, per intenderci), seguite da Walmart, Samsung, Facebook, ICBC, Huawei e Verizon. Ma è veramente così?

In università, gli studenti di economia avranno sicuramente incrociato le definizioni di brand equity e brand value, che in italiano possono essere tradotte tranquillamente alla lettera come capitale di marchio e valore del marchio, che mostrano delle differenze sostanziali.

Il primo, il brand equity, seguendo la definizione di David Aaker, professore di strategie di marketing presso la Haas School of Business all’università di Berkeley, può essere inteso come “quell’insieme di elementi intangibili (asset), legati al brand, che possono accrescere o diminuire il valore del prodotto che si offre ai propri clienti”. In altre parole è quella percezione del marchio che deriva dalla fedeltà ad esso, dalla sua notorietà, dalla qualità percepita (non sempre corrispondente a quella reale, va sottolineato), alle suggestioni che esso provoca e agli elementi distintivi posseduti. Il secondo, invece, è il valore di vendita o sostituzione del marchio, secondo la definizione più comune, quindi, detto in maniera brutale, quanto qualcuno sarebbe disposto a pagare per acquistarlo. È evidente, quindi, che questo ultimo non sia determinabile in ogni momento ma solo quando il marchio finisse sul mercato, cioè quando si decidesse di venderlo o di modificarlo/sostituirlo come nel caso degli M&A societari.

Quantificare un prezzo di un marchio in caso contrario è meramente un esercizio intellettuale volto a dare un parametro univoco e confrontabile nelle analisi economiche e di scenario. La domanda che sorgerebbe a questo punto, quindi, dovrebbe essere “ma allora la mela di Apple non vale 355mld di dollari?”. La risposta, onesta, dovrebbe essere “no”!

O meglio, quel valore è solamente indicativo e calcolato sulla base degli eventi di mercato in essere o già avvenuti per quantificare cosa sia il capitale di marchio della casa di Cupertino ma, se fosse messo in vendita, non è escluso che possa anche raggiungere quotazioni ben maggiori o, in caso contrario, anche molto minori anche perché suscettibile di variazioni anche violente in caso di mutamenti di scenario. I casi di Blockbuster e, appunto, di Apple ne sono una prova eclatante.

Blockbuster fu il leader incontrastato dell’home entertainment per decenni, dalla fondazione nel 1985 fino a tutto il primo decennio del nuovo secolo, ma sottovalutò l’innovazione tecnologica e fu soppiantato da piattaforme di streaming come Netflix , il principale concorrente, più economiche e più comode nell’utilizzo rispetto a un canale fisico per l’acquisizione dei contenuti che la portò al fallimento nel 2013 azzerando un capitale di marchio che, solo qualche anno prima, era enorme, sia per affidabilità percepita sia per notorietà sul mercato.

Apple, d’altro canto, svanita la spinta innovatrice degli anni 80, nella prima metà anni 90 del secolo scorso sembrava destinata a un continuo declino e nemmeno la sostituzione degli obsoleti processori della serie 68000 di Motorola con i PowerPC di IBM sembrava poter invertire la china decrescente. Con il ritorno di Steve Jobs a capo dell’azienda, però, si verificò l’inversione di marcia, prima con l’accordo con Microsoft per la chiusura delle dispute legali in corso e una partnership dal lato dell’accesso a Internet, poi, con l’acquisizione di NeXT, azienda di Jobs, che fu alla base dell’evoluzione del sistema operativo all’attuale MacOS, poi con il rinnovamento estetico e strutturale di tutta la produzione di computer e l’introduzione di nuovi prodotti che ne fecero la fortuna, dall’iPOD per la musica all’iPhone che fu la vera molla per la crescita esponenziale della notorietà e della redditività dell’azienda portandola, oggi, ad essere valutata come il marchio più importante al mondo.

Come si vede da questi due casi basta un solo errore perché si dissipi un capitale di marchio enorme (e di conseguenza si azzeri un potenziale valore di mercato dello stesso) o una sola innovazione, sicuramente disruptive (si scusi l’anglicismo ma non esiste un vero equivalente italiano dell’idea di disruptive innovation, così come descritta in “the Innovator’s dilemma” di Clayton Christensen) come fu l’iPhone che non era minimamente paragonabile ai palmari già esistenti o ai Blackberry di RIM, per spingere un marchio nell’”empireo”.

È, altresì, evidente che con queste premesse sia alquanto difficile calcolare quello che viene chiamato brand equity quando il marchio non sia soggetto a operazioni di mercato (come in caso di vendita o di M&A societario), anche perché il risultato potrebbe differire anche notevolmente a seconda del metodo di calcolo utilizzato, ma è, in effetti, un esercizio intellettuale necessario ai sensi del bilancio aziendale visto che rientra nelle immobilizzazioni immateriali nello stato patrimoniale del bilancio soprattutto in ambiente anglosassone dove, spesso, è inserito sotto la voce “goodwill” (avviamento) che rientra negli asset disponibili dell’azienda permettendo di mostrare agli investitori e agli stakeholder in generale una situazione patrimoniale ancor più solida; questo calcolo, inoltre, rappresenta una mossa strategica, a livello pubblicitario, assai importante perché vuole far comprendere quanto solo un nome rappresenti un valore significativo a livello di conoscenza e di qualità percepita da parte degli attori sul mercato, quasi più di qualsiasi altra mossa di comunicazione che si possa mettere in atto.

Matteo Gianola: