I dati che Istat ha pubblicato alcuni giorni fa sui centenari in Italia sono una bellissima notizia, ci invitano ad aprire una riflessione sulla anzianità, rinnovata e lungimirante. La catechesi settimanale che Papa Francesco da alcuni mesi propone su questi temi ci è assai utile, ricca di suggestioni e indicazioni concrete. Andiamo per un attimo sui dati.
L’Istat registra al 1° gennaio 2021 17.177 centenari residenti in Italia, più di 7000 sono le persone che hanno raggiunto la soglia dei 105 anni tra il 2009 e il 2021, l’83,4% è costituito da donne. “Negli ultimi 10 anni, dopo una costante crescita fino al 2015 (massimo storico con oltre 19mila individui), la popolazione super longeva – afferma l’Istituto di statistica – ha avuto una riduzione dovuta in larga misura a un effetto strutturale: l’ingresso in questa fascia di età delle coorti, meno numerose rispetto alle precedenti, perché costituite dai nati in corrispondenza del primo conflitto mondiale. A seguito dell’aumento dei contingenti iniziali delle coorti nate alla fine del primo dopoguerra si osserva invece a partire dal 2020 una nuova crescita dei sopravviventi più longevi”. Curioso annotare che Giuseppe e Maria sono i nomi di battesimo più diffusi, oggi nessuno dei due nomi è fra i dieci più adottati tra i nati negli ultimi 10 anni. A livello regionale la maggior parte dei centenari risiede nel Nord Italia; a differenza delle altre fasce di età di popolazione anziana, per chi ha raggiunto o superato i 105 anni di età non si è osservata una crescita rilevante dei decessi nel corso del 2020, primo anno della pandemia da Covid-19.
Questa breve e non esaustiva presentazione dei dati conferma l’Italia tra i paesi con il più alto tasso di longevità, assieme all’altro primato – assai più triste – di un paese con un tasso di natalità tra i più bassi a livello mondiale. Quali indicazioni possiamo trarre? Gli orizzonti della vita si sono ampliati, la vita lunga ci invita a ripensare l’età dell’anzianità, a rovesciare i paradigmi culturali che l’hanno raccontata nei decenni scorsi.
Il tempo non produttivo è inutile secondo la logica economicistica della vita che al contrario si vuole efficiente e rapida, razionale e dissipativa. Un tempo inutile dedito alla preparazione e all’attesa della “partenza”, segnato spesso dalla solitudine e dalla malinconia, dalla depressione e dalla fatica di vivere, dalla malattia e dalla non autosufficienza. Una età rappresentata come un problema, dunque, un peso economico per il sistema paese e un costo alto per la sanità.
Ma davvero è così? Davvero dobbiamo accettare una cultura economica e sociale che giustifica e ritiene inevitabile lo spreco immenso di energie, valori e intuizioni delle generazioni più anziane? Se si esce dall’attività lavorativa mediamente a sessant’anni circa e la vita dura oltre gli ottant’anni, quasi trent’anni, non è questa una stagione di vita da inventare e ripensare trasformandola in una prospettiva creativa, di costruzione di bene comune, di un fecondo dialogo intergenerazionale ricco di opportunità?
Cerchiamo insieme di tracciare qualche pista di lavoro che ci aiuti a rovesciare luoghi comuni e stereotipi per individuare nuovi percorsi generativi.
Anzitutto un contributo spirituale ad un tempo povero di futuro e speranza. Il tempo dell’anzianità aiuterà a riproporre quei valori ritenuti irrilevanti per il sistema economico e sociale del paese. La gratuità, la dedizione, la mitezza, la fragilità, l’amicizia civile, per citarne alcuni, percepiti poco razionali e intelligenti dal pensiero mainstream dello sviluppo estrattivo e senza limiti, oggi appaiono sempre più determinanti dopo due decenni di profonde crisi ai quali ahimè si è aggiunta pure una guerra. Gli anziani – quelli che sono venuti prima – hanno dalla loro una vita vissuta, sono testimoni di una esistenza impegnata, conoscono da sempre – prima che venisse citata così frequentemente – il significato di resilienza. Riprendendo la profezia di Gioele 3,1-5, agli anziani spetta il compito e il coraggio di “fare sogni”.
Un percorso di nuova cittadinanza attiva nei mondi del volontariato e del terzo settore nei quali il valore della gratuità come stile di vita assume un tratto fondativo. E chi potrà testimoniarlo se non quelli che sono venuti prima? Una presenza, quella degli anziani, non ritenuta provvisoria in attesa che giungano i giovani, ma risorsa preziosa e strategica. Ma questo va preparato: perché non pensare meno alle riforme pensionistiche e costruire percorsi lenti di uscita dal lavoro e di entrata lenta nel mondo del volontariato? Part time progettati, orari flessibili per coloro che stanno maturando la pensione.
Se l’Italia è un paese longevo e con speranze di vita tra le più alte al mondo è perché abbiamo un sistema sanitario che ha garantito buona salute a tutti. La riforma del 1978 non va archiviata, il trinomio prevenzione cura e riabilitazione, i tre assi del sistema, non vanno messi in soffitta come troppo spesso è accaduto. Una sanità che rimetta al centro la persona, equa e giusta, e che contrasti le disuguaglianze sociali nelle condizioni di salute: oggi non è più così, non è un caso che il numero dei centenari è più numeroso al Nord.
Non da ultimo un welfare di prossimità, un welfare che assuma la fragilità come tratta costituivo della vita umana, non istituti specializzati per età, ma luoghi intergenerazionali nei quali ci si incontra e si fa amicizia. E che si prende cura della stagione della non autonomia quando giunge, senza isolare dalla vita le persone, senza rinchiuderle ma lasciandole vivere a casa propria, nella propria comunità. Il welfare della prossimità pensato per le persone anziane è un welfare per tutti, per tutte le generazioni. Ripensiamolo daccapo.