Ma cosa vuol dire che Dio è amore. Certo, possiamo personificare ed immaginare, come siamo abituati per facilitare la comprensione, che vi sia un vecchio barbuto che dall’alto osservi ed ami tutti i suoi figli compassionevolmente: le immagini sacre della pittura ci hanno abituati a questo nella storia del mondo e le parole che ascoltiamo ci indirizzano verso questa sovrastruttura.
Ma il mondo è destrutturato in termini materiali e ripensato in termini relazionali: nulla esiste di per sé se non in relazione ad altro, in una reciproca funzionalità potremmo dire opportunistica. La filosofia lo ha già pensato da tempo e basta rivolgersi al mondo orientale per abbandonare la stringente logica consequenziale e percepire il valore delle azioni rispetto alle cose, quasi un riscatto dell’etica, qui relegata a ragion pratica sottoposta alla superiore ragion pura con la quale fu riordinata la metafisica.
Non c’è l’Ente, sostengono in Oriente, ci sono solo gli Autori. Sarà questo il motivo per il proliferarsi degli adepti alle filosofie buddiste, in cui la realtà è scarnita dalle sue strutture per lasciare rivalutare il mondo piuttosto che cedere alle pretese di annullamento dell’uomo proposte dal nichilismo occidentale? Di là, da duemila anni pensano che la realtà è vacua, vuota, e solo l’uomo liberato dalle sue sovrastrutture può cogliere questa verità ed orientare il suo agire verso la meta; di qua sappiamo, da duemila anni, che l’amore è l’unica direzione da seguire. Mi sembrano due modi di porre lo stesso problema pesando diversamente l’uomo: di là, fluttuante nel divenire caotico attento a non contrastare l’energia vitale; di qua, la persona cosciente del discernimento delle proprie azioni.
Una barca nella tempesta affidata a mani esperte che le evitano di affondare oppure una camminata nel deserto seguendo la luce di una stella: in entrambi i casi c’è l’uomo intelligente, di là impegnato a capire i propri limiti rispetto alla natura, di qua orientato nel cammino. In tutti e due i casi l’amore esplica la funzione primaria: lì per capire, qui per agire, lì per convivere, qui per camminare.
Gli scienziati hanno studiato che l’amore è dipendente dalla produzione di dopamina e ossitocina nell’ipotalamo stimolato dalle sensazioni di piacere e contatto, con una particolare predisposizione dei neuroni della corteccia cerebrale che si pongono come recettori di questi ormoni determinando la gerarchia tra le emozioni a svantaggio della paura. Ed hanno attribuito questa particolare caratteristica umana alla fase finale della formazione del cervello umano, che avviene dopo la nascita, favorita dall’abbraccio e dal calore materno. Sarà sicuramente così oggi, o più o meno così. Ma la spiegazione riguarda il lato passivo dell’amore, il bisogno di ricevere; il comandamento di Cristo è diretto nell’altra direzione, quella di dare, ed è stata la rivelazione: l’uomo realizza se stesso dando quello che può e la croce ne è il simbolo. Anche l’uomo orientale arretra di fronte alla sua grandezza; si pone diversamente perché culturalmente è cresciuto in un ambiente organizzato differentemente ma al momento della rivelazione non esita a comprendere appieno e ad abbracciare la croce. E fino a quel momento si pone in una condizione, inconsapevole ed agnostica, di doveroso rispetto, anche perché quella cultura lo ha nelle sue corde.
È la cultura occidentale che sembra aver smarrito, invece, il senso del rispetto, insito nel dialogo a cui sembra aver rinunciato in favore di continui monologhi. Ma l’uomo è un individuo sociale, abbisogna di relazionarsi per esprimersi, per essere, cerca il confronto, lo stimolo, il contatto, vuole andare avanti, sa che non è fatto solo per la vita biologica, è attratto dall’infinito, guarda in alto, sa che c’è altro, non si accontenta, ha imparato la fiducia, ha conosciuto la fede.
La scienza non pare abbia finora fornito una spiegazione adeguata a questo e non si adatta all’esistenza di qualcosa che non riesce a dimostrare, come se tutto fosse dimostrabile, come se l’apparato biologico potesse riuscire a superare i propri confini con la strana pretesa che tutto quello che non si dimostra non esiste, almeno fino a che non si riesce a dimostrare. È un procedimento scientifico? Forse è logico, ma di una logica che la scienza ha dimostrato che non funziona. Forse c’è altro, e sono in tantissimi a pensarlo, moltissimi a crederlo, tutti a provarlo.