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L’ambiente in cui cresce il male

Foto di Alexa da Pixabay

Una delle obiezioni più frequenti che viene posta all’esistenza di Dio è la presenza del male nel mondo. L’argomento logico utilizzato è semplice: se Dio è infinitamente buono ed è onnipotente per quale ragione non elimina il male dal mondo e consente che invece vi dilaghi? La risposta sembrerebbe obbligata: la presenza del male dimostra l’inesistenza di Dio o la sua incapacità o, peggio ancora, la sua mancanza di volontà per distruggerlo. Ma l’obiezione a tale conclusione è altrettanto semplice: Dio non ragiona secondo la nostra logica! Abbiamo già visto nelle precedenti stazioni del viaggio tra i filosofi degli ultimi secoli che Dio non è nella logica e che questa ci porta fuori strada. Siamo noi che ammantati di superbia non vediamo i nostri limiti e pretendiamo di imporre a Dio il nostro modo di ragionare, macchiandoci del peccato di Lucifero che fu precipitato nell’abisso.

Sin dalla Genesi abbiamo imparato che il male non è nel mondo ma ve lo abbiamo portato noi: i cataclismi, le catastrofi, gli accidenti naturali modificano il mondo secondo le proprie regole come anche gli animali e le piante vivono a loro modo; talvolta noi vi capitiamo e periamo vittime innocenti ma questo non è il male: è la natura. Dio l’ha fatta così e se così non fosse non esisterebbe.

Il male lo ha introdotto l’uomo quando per cercare di conoscere la verità ha guardato alla natura, disobbedendo a Dio che aveva imposto ad Adamo di non mangiare del frutto della conoscenza. Certo Dio non voleva impedire all’uomo di crescere nella verità ma lo aveva ammonito che la verità non andava cercata nella natura: egli doveva rivolgere altrove il suo sguardo. Non lo fece ed introdusse il male nel mondo poiché applicò agli uomini le regole della natura; ma Dio aveva dato all’uomo il discernimento, che la natura non conosce, e quindi egli poteva scegliere di non comportarsi ad imitazione della natura ma osservando le regole che Dio gli aveva fornito ed invece si è allontanato.

Sant’Agostino, nel libro settimo delle sue Confessioni, ha colto che il male è assenza di bene, rivolgendosi al comportamento dell’uomo che non si orienta al bene, non osserva i precetti ricevuti nell’usare le cose del mondo e non sa contenere i suoi istinti negando l’amore di Dio verso il mondo ed i suoi simili: l’episodio di Caino è immediatamente successivo alla cacciata dal paradiso e Dio lo aveva ammonito il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è la sua bramosia, ma tu dòminala (Gn 4,7). Anche qui, all’inizio del tempo, Caino disobbedisce e compie il male.

Oramai introdotto nel mondo per volontà dell’uomo, e non certo di Dio che lo aveva avvertito, il male ha dilagato ed ancora l’uomo è incapace di controllarsi e di respingerlo: eppure Cristo gli aveva mostrato la via con la parola che ha lasciato e con la sua morte in croce. Ed invece di comprendere che il male lo facciamo noi, continuiamo ad addossarne la responsabilità ad altri, non meglio identificati e ad assolverci con la più banale delle scuse.

Hannah Arendt vi ha dedicato uno dei suoi testi più significativi e vorrei dire più lucidi ed importanti ma anche meno ascoltati: La banalità del male. Giornalista e politologa ebrea vissuta negli Stati Uniti, era a Gerusalemme durante il processo ad Eichmann per i crimini di guerra; non fu favorevole a quel processo (come non lo fu a quello di Norimberga), ne vedeva le ragioni politiche e gli interessi di affrancazione dalle critiche e di affermazione dello stato di Israele; ne condannò la matrice politica e non approvò le motivazioni della sentenza poiché colpiva un uomo che non aveva violato alcuna legge mentre avrebbe dovuto condannarlo (e con lui l’intera nazione tedesca) per il solo fatto di aver partecipato, ancorché inconsapevolmente, alla eliminazione dei propri simili per motivi razziali, e disse: nessuno ha il diritto di ubbidire! È questo il punto dirimente che la filosofa coglie in pieno: Eichmann era un uomo meno che mediocre, privo di idee, che agiva per piacere ai suoi simili, per eseguire quanto gli veniva chiesto, senza farsi domande, senza porsi alcun problema sulle conseguenze del suo agire. Non ebbe grande responsabilità poiché si occupò della parte logistica delle deportazioni decise da altri, ma lo fece con assoluta zelante indifferenza. È in questo ambiente che cresce il male, che prolifera e si fortifica, è nell’indifferenza e nella mancanza di consapevolezza sulle conseguenze delle proprie azioni, scaricandosi di colpe nella maniera più banale possibile.

Il male è proprio questa assenza dell’uomo così come Dio lo ha creato a sua immagine. Il male è assenza di sé.

Roberto de Tilla: