L’8 settembre è la data dedicata dalle Nazioni Unite alla Giornata Internazionale dell’Alfabetizzazione. Istituita il 17 novembre 1965 su proposta dell’UNESCO vuole ricordare l’importanza dell’alfabetizzazione e il richiamare l’attenzione sul numero di minori che ancora oggi non possono ricevere un’istruzione e un’educazione di base. Un passaggio obbligatorio per cercare di porre fine a molte delle problematiche universali come la povertà, mortalità infantile, diffusione delle malattie sessualmente trasmissibili, violazione dei diritti umani e molte altre.
Ma cosa vuol dire analfabeta? Ci sono diversi tipi di analfabeti. Per alfabetizzazione, solitamente, si intende la capacità di una persona di leggere e scrivere. Il tasso di alfabetizzazione sarebbe quindi definito come la percentuale di persone (al di sopra dei 7 anni) che sanno leggere e scrivere.
Secondo questa definizione, oggi, nel mondo sono almeno 763 milioni i giovani e gli adulti privi di competenze di alfabetizzazione di base. I seppur blandi miglioramenti hanno registrato un rallentamento a causa della pandemia: molti bambini e bambine che hanno abbandonato la scuola non ci sono più tornati.
Il problema dell’alfabetizzazione è complesso. Secondo le stime dell’UNESCO, il 64% delle persone prive di alfabetizzazione sono donne. Quanto alla distribuzione territoriale, i dati sono facilmente prevedibili. La maggior parte delle persone prive di alfabetizzazione vive nei Paesi più poveri del pianeta: più della metà si trova nell’Asia Occidentale e Meridionale, il 24% nell’Africa subsahariana, il 12% in Asia Orientale, il 6,6% negli Stati Arabi e il 4,2% nell’America latina.
Anche nei Paesi “sviluppati” è sempre più diffuso il fenomeno dell’ “analfabetismo di ritorno”: ragazzi e adulti, ma soprattutto adulti che, dopo aver seguito un normale percorso scolastico, col tempo hanno perso le conoscenze necessarie per scrivere o leggere e comprendere un testo a causa del mancato esercizio. Secondo alcuni studi, in Italia, il 98,6% dei cittadini tra i 25 e i 65 anni è alfabetizzato, ma almeno il 30% avrebbe limitazioni nella comprensione di un testo, nella lettura e nella realizzazione di un semplice calcolo. Non meno grave, e forse ancora più diffuso, il fenomeno dell’analfabetismo funzionale. Nel 1984, l’UNESCO lo definì come “la condizione di una persona incapace di comprendere, valutare, usare e farsi coinvolgere da testi scritti per intervenire attivamente nella società, per raggiungere i propri obiettivi e per sviluppare le proprie conoscenze e potenzialità”. OECD Statistics Questo termine, coniato all’interno di un’indagine sui nuclei familiari svolta dalle Nazioni Unite, venne inizialmente pensato per indicare quei soggetti privi di un’alfabetizzazione superiore rispetto a quello di alfabetizzazione minima (introdotto dall’Agenzia nel 1958). Secondo le Nazioni Unite, una alfabetizzazione di base, seppure necessaria, non sarebbe sufficiente a consentire la crescita sociale ed economica. Venne sollevata la questione delle campagne di alfabetizzazione di massa. E si disse che avrebbero dovuto mirare a standard di alfabetizzazione più elevati del semplice saper leggere e scrivere. L’obiettivo era consentire a tutti di sviluppare la capacità di utilizzare tali competenze nelle relazioni fra sé e la propria comunità e le situazioni socioeconomiche della vita. Recentemente l’UNESCO ha parlato anche di un altro tipo di alfabetizzazione: quella digitale definita come la “capacità di accedere, gestire, comprendere, integrare, comunicare, valutare e creare informazioni in modo sicuro e appropriato attraverso le tecnologie digitali per l’occupazione, i posti di lavoro dignitosi e l’imprenditorialità”.
Al problema dell’alfabetizzazione venne dedicato un intero Obiettivo dello Sviluppo Sostenibile, il 4. Il sotto-obiettivo 4.1 dei SDGs prevede che, entro il 2030, tutte le ragazze e i ragazzi abbiano completato un percorso di istruzione primaria e secondaria “gratuita, equa e di qualità che porti a risultati di apprendimento pertinenti ed efficaci”. Il sotto-obiettivo 4.2 inizia ancora prima: entro il 2030, dovrebbe essere garantita a tutti i bambini e le bambine l’accesso a una scuola della prima infanzia, a cure e a un’istruzione pre-primaria di qualità in modo che siano pronti per l’istruzione primaria (calcolata come la percentuale di bambini di età compresa tra 24 e 59 mesi di età compresa tra 24 e 59 mesi “sulla buona strada per lo sviluppo in termini di salute, apprendimento e benessere psicosociale”). E ancora. I sotto-obiettivi 4.3 e 4.4 prevedono che tutti possano aver ricevuto conoscenze professionali tali da consentire un inserimento nel mondo del lavoro. Senza disparità di genere (sotto-obiettivo 4.5) e, ove necessario, potendo ricorrere (sotto-obiettivo 4.b) a borse di studio in particolare nei “Paesi in via di sviluppo, in particolare i Paesi meno sviluppati, i piccoli Stati insulari in via di sviluppo e i Paesi africani, per l’iscrizione all’istruzione superiore, compresa la formazione professionale e le tecnologie dell’informazione e della comunicazione, i programmi tecnici, ingegneristici e scientifici, nei Paesi sviluppati e in altri Pin via di sviluppo”.
Sono passati molti anni da quando gli Stati membri delle Nazioni Unite hanno approvato e condiviso questi “obiettivi”. Ancora oggi, però, a parte qualche blando miglioramento, la situazione appare drammaticamente grave. E già si prevede che molti di questi obiettivi non potranno essere raggiunti. Per lo meno non entro il 2030. La conseguenza è che il mondo era e resterà diviso in due. Diviso tra chi sa leggere, chi è in grado di comprendere un testo (magari un po’ più complesso) e fare qualche calcolo e chi, invece, non sa né leggere né scrivere. O ha dimenticato come si fa. Molti di loro non sapranno neanche che l’8 settembre è la Giornata Internazionale dell’Alfabetizzazione.