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9 marzo 1991: inizia la disgregazione della Jugoslavia

Dal 9 al 14 marzo 1991 ebbero luogo a Belgrado proteste e manifestazioni di massa contro il governo di Slobodan Milosevic. Esse furono il segno evidente, politico e anche mediatico, per il grande rilievo che ebbero anche a livello internazionale, dei forti contrasti politici e personali della nuova leadership emersa dopo la morte del Maresciallo Tito, al cui interno Slobodan Milošević, presidente della Serbia, s’illude che la sua superiorità militare e il ricorso alle armi permetta non tanto di prolungare la vita della Repubblica socialista federale di Jugoslavia, quanto di regolare i rapporti con le altre repubbliche, segnatamente la Croazia e la Bosnia-Erzegovina, percorse tutte da forti venti nazionalistici e secessionistici.

L’evento storico dal quale partire, a mio parere, è tuttavia il funerale di Josip Broz Tito, celebrato a Belgrado l’8 maggio del 1980, cui partecipano centinaia di migliaia di iugoslavi e Capi di Stato e di governo di ben 128 Stati, compresa la Santa Sede, che con la Iugoslavia aveva ristabilito piene relazioni diplomatiche. Una fotografia mostra Monsignor Achille Silvestrini, neosegretario del Consiglio degli Affari Pubblici della Chiesa a fianco di Enrico Berlinguer.

Fu un omaggio internazionale al defunto leader che aveva guidato l’epica resistenza contro l’occupazione tedesca e italiana, riuscendo – unico paese in Europa – a conseguire la liberazione senza l’intervento né dell’Unione Sovietica, né degli Alleati Angloamericani. Che era riuscito anche a resistere a Stalin, collocando la Jugoslavia comunista non nel blocco sovietico ma nel Movimento dei paesi non allineati, sperimentando anche all’interno dell’economia socialista, esperienze di autogestione e, soprattutto, per diversi decenni, conservando le turbolente regioni degli Slavi del Sud fuori da conflitti esterni e interni.

Si trattò, con il senno di poi, anche del funerale anticipato della Repubblica socialista federale di Jugoslavia perché nel decennio successivo alla morte di Tito, viene via via superato, fino al suo capovolgimento, del principio strategico che aveva regolato i delicati equilibri dello Stato iugoslavo: un potere federale forte, garantito dall’Armata popolare jugoslava e una Serbia debole, per evitare la sua supremazia sulle altre repubbliche. La Repubblica socialista federale di Iugoslavia era composta da sei repubbliche: la Bosnia-Erzogovina, la Croazia, la Macedonia, il Montenegro, la Slovenia e la Serbia che comprendeva due regioni autonome, il Kosovo e la Vojvodina.

Occorre premettere che i serbi e i croati rappresentavano il 66% della popolazione della Jugoslavia, nella quale, tuttavia era quasi bandito il termine minoranza e, ufficialmente si riconoscevano sei nazionalità, nell’ordine: serba, croata, slovena, macedone, montenegrina, musulmana. Le lingue riconosciute erano il serbo-croato, lo sloveno, il macedone, ma era usato anche dalle stesse autorità, l’ungherese nella Vojvodina e l’albanese nel Kosovo. Occorre premettere anche che forti insediamenti serbi erano presenti da secoli nella Croazia, nella Bosnia-Erzegovina e nel Kosovo, mentre la Macedonia comprendeva una forte minoranza albanese. Per di più nei quattro decenni della repubblica federale i matrimoni misti fra le sei nazionalità e anche fra le diverse confessioni religiose, cattolica, ortodossa, musulmana, erano frequentissimi. Di qui le tante tragedie familiari e personali generate dal conflitto sanguinoso inter-iugoslavo degli anni Novanta.

La Croazia proclamò l’indipendenza lo stesso giorno della Slovenia, il 25 giugno del 1991. La separazione della Slovenia dalla Federazione Jugoslava avvenne quasi senza spargimento di sangue. Non solo geograficamente, ma anche storicamente e culturalmente, essa era legata alla Mitteleuropa. In Croazia, invece, la corposa minoranza serba non riconosce il nuovo Stato e, con il sostegno dell’Armata popolare jugoslava, tenta la secessione di un terzo del suo territorio, estromettendo la popolazione non serba.  Conseguono aspri combattimenti per tutto l’anno. Persino la città costiera di Dubrovnik è bombardata.

Nonostante un accordo, sotto l’egida dell’ONU, raggiunto all’inizio del 1992, permangono tensioni e conflitti che riesplodono nel 1995, quando l’esercito della Croazia, modernamente equipaggiato e armato, sferra una nuova sanguinosa offensiva per recuperare tutto il territorio, provocando l’esodo massiccio dei serbi verso la Bosnia-Erzegovina e, soprattutto, verso la Serbia, dove per anni vivranno penosamente in campi profughi. Solo nel 1998 il conflitto può essere considerato concluso.

Molti storici e studiosi delle relazioni internazionali concordano sulla valutazione negativa dell’appoggio dato dalla Germania, pacificamente giunta alla riunificazione, dopo il crollo del Muro di Berlino, alla proclamazione unilaterale dell’indipendenza croata in una situazione di tensione e conflitto. Influiscono indubbiamente i forti interessi economici tedeschi, essendo, ormai, il marco quasi la moneta circolante nell’area. Non aiuta certamente ad allentare la tensione neppure il riconoscimento dell’indipendenza croata da parte della Santa Sede, che secondo la consolidata tradizione della diplomazia vaticana, non era mai concesso in situazioni di tensioni e di conflitto. In questo senso pesò, nonostante le perplessità della Segreteria di Stato, il personale forte desiderio del pontefice polacco di porre fine immediatamente ai regimi comunisti, percepiti tutti senza interne differenze.

Prendendo, ora, in esame le altre repubbliche, nel caso del Montenegro, la dissoluzione della Jugoslavia fu pacifica e anche rinviata nel tempo. Il Montenegro, negli anni Novanta, resta unito alla Serbia di Slobodan Milosevic nella Repubblica federale di Iugoslavia. Dal febbraio del 2003 permane questo legame, sia pure in una forma meno subalterna, come denota la nuova denominazione dello Stato: Comunità degli Stati della Serbia e del Montenegro. Un referendum sull’indipendenza, nel maggio del 2006, pone fine pacificamente a quest’unione. Anche la Macedonia consegue pacificamente l’indipendenza nell’autunno del 1991. Perché possa essere ammessa all’ONU, la Grecia impone che la sua denominazione ufficiale sia Former Yugoslav Republic of Macedonia, ritenendosi depositaria ed erede legittima della Macedonia di Alessandro Magno.

Nel primo decennio dell’indipendenza la periferica Repubblica macedone non è coinvolta nelle guerre dell’ex Jugoslavia ma, nel febbraio del 2001, è sconvolta da un sanguinoso conflitto interno. Mentre la piccola minoranza turca non crea alcun problema, la corposa minoranza albanese, presente soprattutto nelle regioni settentrionali confinanti con il Kosovo e in quelle orientali, al confine dell’Albania, scatenano conflitti armati, costituendo l’Esercito di liberazione nazionale albanese, al fine di ottenere l’autonomia o l’indipendenza delle regioni popolate da albanesi. Fortunatamente dopo diversi mesi di scontri armati si perviene a un accordo che prevede il disarmo della milizia albanese e la dislocazione di reparti della Nato. Il Kosovo negli anni Novanta continua a far parte della Repubblica federale di Iugoslavia, come provincia della Serbia, senza più neppure lo status di regione autonoma che aveva avuto nella Iugoslavia di Tito.

Nel 1998-99 esplode il malessere della popolazione albanese, maggioritaria per circa il 90% e si rivendica l’indipendenza. Si costituisce, con forti sostegni esteri, segnatamente statunitensi, l’Esercito di liberazione del Kosovo (UÇK) che inizia una sollevazione armata, contrastata con duramente dall’esercito serbo. I massicci bombardamenti costringono 750.000 albanesi abbandonare il paese. Dopo il fallimento dei colloqui di pace di Rambouillet, interviene la Nato con incursioni aeree sia nel Kosovo sia in Serbia, per ben 78 giorni. A farne le spese, come in tutti i conflitti di fine Novecento è la popolazione civile. Vittime privilegiate nel Kosovo, come in Bosnia-Erzegovina, sono anche le misconosciute e discriminate minoranze Rom e Sinti.

Il presidente Milošević, dopo un anno di conflitti sanguinosi, accetta di ritirare l’esercito e la messa in campo d’una amministrazione internazionale del Kosovo: se i 750.000 mila albanesi possono rientrare nel proprio paese, circa 100.000 serbi, da secoli insediati nella regione, considerata anzi la culla dell’indipendenza serba dal dominio turco, sono costretti a lasciare il paese per paura di ritorsioni, andando incontro al triste destino dei profughi. Permangono non del tutto sopiti rancori e conflitti, anche a seguito della proclamazione unilaterale, nel febbraio del 2008, dell’indipendenza.

La Bosnia-Erzegovina, infine, è investita e travolta, dal 1992 al 1995, dal conflitto più lungo e sanguinoso e provoca circa 200 mila morti, un numero ancora più elevato di feriti, nel corpo e ancor più nell’anima e 2 milioni e 700 mila profughi e sfollati. La popolazione della Bosnia Erzegovina era costituita per il 43% da bosniaci musulmani, per il 33% di bosniaci servi e per il 17% di bosniaci croati e per il 7% di altre nazionalità. L’identità dei tre gruppi non si fonda tanto su presupposti etnici e linguistici, quanto religiosi: la religione musulmana per la maggioranza, quella cristiano ortodossa per i Serbi e quella cattolica romana. Questa realtà multireligiosa, prima della dissoluzione della Iugoslavia non aveva generato contrasti o divisioni, essendo molto avanzato il processo di secolarizzazione anche nella comunità musulmana. La capitale Sarajevo era, anzi, la città, nota e apprezzata, anche a livello internazionale, per la sua vivacità culturale e artistica (cinema, teatro, musica d’avanguardia) che attirava giovani da tutta l’Europa. Un’ulteriore riprova che la religione, specie nella sua versione fondamentalista, è non fede vissuta, ma pretesto e copertura, particolarmente nei conflitti militari, di dinamiche geopolitiche.

All’inizio di questa tragica vicenda, nel 1991, in un incontro segreto i dirigenti della Croazia e della Serbia trattano per il progetto, non riuscito, di spartirsi il territorio della Bosnia-Erzegovina, lasciando ai musulmani una piccola enclave. Nel 1992, nonostante il boicottaggio dei serbi, il referendum per l’indipendenza della Bosnia-Erzegovina è approvato dal 60% della popolazione. Per reazione Bosniaci-Croati e Bosniaci-Serbi, non riconoscendo l’autorità del governo di Sarajevo, creano delle proprie repubbliche separate con il sostegno rispettivamente della Croazia e della Serbia. I Serbi-Bosniaci, in particolare, con l’appoggio massiccio della Serbia, estendono il proprio controllo a quasi il 60% del territorio, anche perché erano, essendo prevalentemente contadini, distribuiti nelle campagne, mentre i Bosniaci Musulmani erano prevalentemente concentrati nei centri urbani. Ne consegue un conflitto sanguinoso, con tre soggetti coinvolti, di estrema violenza, nel quale i civili sono vittime di crimini atroci, fino alla diffusa pulizia etnica e a episodi di vero e proprio genocidio, nonostante la presenza di forze d’interposizione dell’ONU e il progressivo intervento della NATO.

Il culmine dell’orrore è raggiunto nell’estate del 1995 nella città bosniaca di Srebrenica, pur dichiarata dall’ONU “zona sicura”, quando durante un’operazione condotta dal comandante serbo-bosniaco, Ratko Mladić, nello spazio di alcuni giorni, le donne e i bambini sono costretti a lasciare la città e si procede all’esecuzione a freddo di ben 8.000 uomini e ragazzi. Gli accordi di Dayton, del 21 novembre del 1995, confermarono di fatto la situazione creata dalla guerra, prevendo la formazione di uno Stato bosniaco diviso in due entità, la Federazione di Bosnia-Erzegovina (croato-musulmana) e la Repubblica Serba. Per garantire le sospettose tre comunità si previde una presidenza collegiale, costituita da tre membri, uno musulmano, uno serbo e uno croato, che a rotazione ne sarebbero stati al vertice.

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