“Era una sfida difficile, ringrazio tutti. E’ una sconfitta che mi appartiene, ripartiamo dall’opposizione. Dalle sconfitte si deve ripartire, penso che possiamo dare molto alla città, porteremo avanti il nostro programma dall’opposizione. Mi pare evidente che ci sarà un sindaco che si chiama Virginia Raggi. Faremo una battaglia di opposizione non preconcetta, costruttiva, continueremo a lavorare per Roma. Saremo un punto riferimento per andare avanti”. Roberto Giachetti ha riconosciuto così la propria sconfitta al ballottaggio per il Campidoglio. Il candidato del Pd si è presentato poco dopo l’uscita della prima proiezione, quando la disfatta, già annunciata dagli exit poll, era ormai certa. E ha provato ad addossarsi ogni responsabilità, ribadendo di aver chiesto e ottenuto dal suo partito piena libertà di movimento durante la campagna elettorale.
Ma la personalizzazione della sconfitta non ridimensionerà la scontro all’interno del Pd romano, dove si respira già aria di resa dei conti. Matteo Orfini, commissario post Mafia Capitale di un Pd romano lacerato, per ora tace. Come gran parte dello stato maggiore del partito romano e degli spin doctor, tutti renziani, della campagna elettorale di Giachetti. Il primo ad alzare la voce è stato Roberto Morassut. Il parlamentare dem, principale sfidante di Giachetti alle primarie del centrosinistra per Roma, non ha usato mezzi termini nel chiedere “un nuovo Pd: si sciolgano le consorterie correntizie che soffocano la partecipazione e ostacolano l’ingresso di nuove forze. Sono un tappo mortale. Si riparta dalla politica e da un pluralismo di idee. In primo luogo a Roma. Ora più nessun alibi”.
Morassut è stato protagonista di quel Pd che era esempio di buon amministrazione, il modello Roma di Veltroni e Rutelli. Azzerato in poco meno di otto anni con la disfatta di stasera. Anche nel vuoto del comitato Giachetti, questa sera, qualche militante puntava il dito: “Il Pd Roma dovrà aprire una ampia discussione ripartendo dalle periferie. Non è stato un voto contro Giachetti”. Altra voce critica quella di Stefano Pedica, il terzo dem in corsa alle primarie all’ombra del Colosseo: “Roberto ha dovuto lottare contro il disgusto dei cittadini che, dopo il terremoto di ‘Mafia Capitale’, di certo non si aspettavano tra l’altro di vedere alcuni personaggi impegnati ancora a fare campagna elettorale – l’affondo -. Serve un congresso romano entro l’anno e bisogna allontanare dal partito chi si faceva fotografare a cena con i Buzzi di turno. Allo stesso tempo, bisogna far capire ad alcune persone che non basta solo presentarsi come renziani o turbo renziani della prima, seconda o terza ora per avere posizioni di potere, bisogna sentirsi del Pd e del centrosinistra”.
La divisione del centrosinistra, che a queste elezioni ha corso diviso (Sinistra Italiana da un lato con Stefano Fassina e Pd dall’altro con Giachetti) è stata tra le cause del crollo dei consensi. Ma non la sola. Sulla debacle del Partito Democratico romano, che solo 2 anni fa alle europee raggiungeva in città il 43%, hanno pesato diversi fattori: dallo scandalo Mafia Capitale alla gestione controversa del caso Marino – l’ex sindaco dem ‘defenestrato’ dal suo stesso partito – fino al lungo periodo di commissariamento che ha ridotto gli spazi di dibattito interno tanto cari ai militanti dem. E ancora: la relazione Barca che ha mappato i circoli romani ‘dividendoli’ tra buoni e cattivi, suscitò non pochi malumori interni. All’indomani del primo turno, il commissario romano Matteo Orfini aveva chiarito: “La mia esperienza di commissario è chiusa per statuto e non per scelta. Entro ottobre va convocato il congresso e penso che dopo le elezioni lo faremo”.