Arriva la richiesta di rinvio a giudizio per cinque carabinieri coinvolti nell’inchiesta sulla morte di Stefano Cucchi, avvenuta nell’Ospedale “Sandro Pertini” di Roma il 22 ottobre 2009. L’accusa per i tre militari che procedettero all’arresto del trentenne romano, Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco, è di omicidio preterintenzionale, in quanto ritenuti autori dell’avvenuto pestaggio ai danni del detenuto, tratto in arresto per detenzione di stupefacenti. Ai tre viene contestato anche il reato di abuso di autorità, avendo sottoposto Cucchi a delle misure di rigore non consentite dalla legge. Su Tedesco, assieme all’appuntato Vincenzo Nicolardi, stando agli esiti della cosiddetta “inchiesta-bis” grava anche l’accusa di falso e calunnia. A processo, per gli stessi capi d’imputazione, anche per il maresciallo Roberto Mandolini, allora comandante interinale della Stazione Roma “Appia”.
L’inchiesta-bis
Il 17 gennaio scorso, il procuratore Giuseppe Pignatone e il sostituto Giovanni Musarò avevano sentenziato, come causa della morte del trentenne, il violento pestaggio subito nei locali della caserma dove Cucchi era trattenuto in stato di custodia cautelare, all’interno della quale era stato “spinto e colpito con schiaffi e calci”, nonché fatto “violentemente cadere in terra”, come specificato dai pm. Per i familiari, dunque, si compie un altro passo verso la giustizia, nel corso di una battaglia per ottenere chiarezza sulla morte del giovane protratta ormai per quasi 9 anni. Secondo la documentazione emessa dalla Procura, Cucchi avrebbe subito, dopo il suo arresto, numerose percosse in diverse parti del corpo, in particolare “un impatto al suolo in regione sacrale che, unitamente alla condotta omissiva dei sanitari che lo avevano in cura presso la struttura protetta dell’Ospedale ‘Sandro Pertini’, ne determinava la morte”. A motivare la condotta violenta dei carabinieri, secondo quanto emerso dai fascicoli dell’inchiesta, l’atteggiamento dello stesso Cucchi, il quale non si sarebbe “mostrato collaborativo”.
Ora, dopo un’infinita serie di assoluzioni, con appelli, ricorsi e sentenze in Cassazione, il processo riparte da zero, grazie alla svolta della nuova indagine effettuata dalla Procura. Forse per la prima volta con basi solide e precisi capi d’accusa.