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Rimodulazione del fisco: una scommessa per rilanciare la crescita del Paese

Foto di Peggy und Marco Lachmann-Anke da Pixabay

Avevamo già parlato della partenza del lungo cammino per l’approvazione della manovra finanziaria per il 2025 e tra i punti più importanti presenti, nonostante le poche risorse disponibili, c’è la riduzione del cuneo fiscale che, con il prossimo anno, diventerà strutturale e non più provvisoria. Questo significa che il taglio della parte fiscale, a carico delle aziende, sul costo del lavoro verrà ridotta sensibilmente permettendo un trasferimento di risorse dall’Erario alle “tasche dei contribuenti” in maniera stabile, senza più la necessità di reperire nuove coperture anno per anno, semplicemente il prelievo sarà inferiore e, da qui, sarà necessaria una rimodulazione definitiva della spesa non potendo più contare su queste somme.

A qualcuno questo richiamerà un famoso passaggio di Milton Friedman quando affermò “Sono favorevole alla riduzione delle tasse sotto ogni circostanza e con qualunque scusa, per ogni ragione, non appena sia possibile. Il motivo è perché credo che il problema centrale non siano le tasse, il problema centrale è la spesa. La domanda è ‘come tieni a bada la spesa dello stato?‘. L’unico metodo efficace per tenerla a bada è controllare gli introiti dello stato. Il metodo per fare questo è tagliare le tasse” ma, credibilmente, non è così, almeno non del tutto.

Il progetto di rimodulazione del fisco, per giungere a una sensibile riduzione della pressione fiscale, non è una mera questione di principio ma una scommessa per rilanciare definitivamente la crescita del paese dopo più di un quarto di secolo di stasi (e d conseguenza permettere la crescita anche degli introiti erariali, per far fronte agli impegni di welfare e di riduzione del debito pregresso) e l’unica via perché questo avvenga è lasciare più risorse per consumi e investimenti a cittadini e imprese, partendo dalle fasce contraddistinte da un’elasticità maggiore al livello di reddito, cioè proprio da quelle contraddistinte da redditi medio-bassi.

In Italia, infatti, non c’è solo un problema di imposizione irrazionale e fin troppo elevata ma anche di basse remunerazioni: i dati OCSE parlano chiaro, dal 1990 ad oggi, la penisola è stata l’unico stato in cui i redditi da lavoro, in PPA, non solo non siano aumentati ma abbiano avuto una sensibile contrazione cosa che, seppur mitigata da un lungo periodo di bassa (o nulla) inflazione, ha aumentato il divario con gli altri Paesi membri dell’UE e, piano piano, ha cominciato ad erodere i patrimoni familiari, schiantando il risparmio che, nonostante tutto, resta una delle caratteristiche degli italiani (anche se in misura sempre minore). In tanti hanno spiegato in questi anni, anche giustamente, che la mancata progressione dei redditi sia dovuta allo schianto della produttività del Paese che, in pratica, ha smesso di crescere.

I dati recentemente diffusi dalla WTO, però, mostrano una situazione molto particolare dove, invece, interi segmenti della filiera industriale italiana mostrano dati di produttività e redditività in linea se non anche ampiamente superiori alle medie dei concorrenti esteri: in particolare si parla delle grandi aziende, perfettamente a livello rispetto alle equivalenti estere, e delle aziende medio-grandi (quelle caratterizzate da un livello occupazionale tra i 500 e i 2’000 dipendenti) che sono addirittura delle eccellenze mondiali, sia a livello di innovazione sia a livello di produttività/redditività. Qual è, allora, il vero vulnus del sistema?

Come già detto in articoli precedenti, si tratta della piccola o, addirittura, micro impresa, di quel “piccolo è bello” tanto caro a una certa idea politica e a certi ambienti “intellettuali” che non è, mediamente, né efficiente né redditizio ma serve principalmente da “bancomat” per la proprietà e che, purtroppo, rappresenta la stragrande maggioranza del settore industriale e dei servizi in Italia.

Tutto questo ha portato ad anni di contratti nazionali visti al ribasso, da lato economico, per evitare che questa realtà datoriale potesse, improvvisamente, ritrovarsi fuori mercato e non avere più possibilità di assumere o, addirittura, di sopravvivere. Si parla ovviamente di buona parte delle imprese artigiane, dei servizi, degli studi professionali che sono la vera zavorra del Paese (anche se tra queste esistono vere e proprie eccellenze sotto ogni punto di vista, ahimè minoritarie nel numero).

Il problema a cui ci si trova davanti, quindi, è che l’Italia si trova, ormai, in un circolo vizioso poiché a bassi salari corrisponde una propensione al consumo e al risparmio/investimento piuttosto bassa che impedisce, quindi, di spingere la produttività data dalla domanda e dall’innovazione in buona parte del comparto produttivo, poiché questo, ad eccezione alle imprese medio-grandi, non ha sbocchi sui mercati internazionali e dipende esclusivamente dalla domanda interna che è, eufemisticamente parlando, deficitaria; l’unica soluzione per uscire dall’impasse è quella di permettere ai redditi di crescere, soprattutto a quelli più contenuti.

Ora, con buona pace di certe forze politiche e di certi sindacati, non è possibile aumentare i salari per decreto e, inoltre, una politica economica basata su bonus e sussidi non porta da nessuna parte, salvo ampliare prima il deficit corrente e, poi, l’indebitamento pubblico, e l’unica “via di fuga” è ridurre il prelievo sui redditi per “lasciare più soldi nelle tasche degli italiani”. Con i lavoratori autonomi è più facile, perché si può agire direttamente sul livello fiscale e da lì la formula del “regime forfaittario” che, visto il successo ottenuto, ha avuto un ampliamento di platea di beneficiari innalzando il limite di fatturato a cui possa essere applicato ma per i lavoratori dipendenti? Lì il tutto è un filo più complicato anche per via della contrattazione collettiva che fissa i minimi salariali per categoria e, allora, ecco che l’azione si sposta sulla parte fiscale e contributiva a carico dei datori, il “cuneo fiscale” appunto, di lavoro per trasferire le risorse direttamente in busta paga, lasciando inalterato il costo del lavoro.

Dopo un periodo di sperimentazione di un anno, con l’inserimento in via transitoria nella manovra 2024, ecco che con quest’anno si vuole rendere strutturale il tutto, permettendo di ottenere un vantaggio progressivo per tutti i redditi dai 40’000 euro in giù.

Sia chiaro che questa non è una panacea ma è un inizio, nel tentativo di rendere più competitivo sia il mercato del lavoro sia di far affluire più risorse alle famiglie sia per sostenere i consumi sia per far ripartire gli investimenti, diretti e indiretti. Questo dovrebbe permettere nel medio termine di stabilizzare la domanda interna, anche per il miglioramento delle aspettative, e spingere la produttività in attesa di elaborare una soluzione di politica industriale che possa far fronte alle debolezze del sistema produttivo italiano.

È evidente che maggiori risorse a disposizione dei cittadini potrebbero far ripartire la macchina che da tempo si era inceppata anche se, sull’altro lato della medaglia, farà diventare sempre più necessaria una revisione della spesa per renderla più efficiente e con meno sprechi che prodromica, oltre a un’ulteriore limatura di imposte e tasse anche per dare maggiore attrattiva all’Italia come terra di investimenti produttivi sia da parte delle aziende autoctone sia da parte di quelle estere, magari iniziando a spingere l’uscita da quel “nanismo” imprenditoriale che è alla base di tutti gli aspetti critici del sistema economico.

Maggiori investimenti significano anche, nel futuro prossimo, anche maggiore produttività e, di seguito, una crescita di salari e redditi, il tutto che potrebbe aver origine da una mossa, il taglio del cuneo fiscale, che è stata anche avversata da parte di alcune opposizioni, spesso, in maniera strumentale.

Matteo Gianola: