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Chi ha paura di Giovanni Paolo II?

Sarebbe ridicolo ritenere che sia stato il Papa ad abbattere con le proprie mani il comunismo”. Scriveva così Giovanni Paolo II, pochi mesi prima di morire, nel suo libro “Memoria e identità”. Ed era la verità. La verità della storia. La verità di ciò che era accaduto nell’Europa dell’Est sul finire del secondo millennio. I fatti del 1989, rileggendoli oggi, trent’anni dopo,  avevano colto di sorpresa tutti. Erano arrivati all’improvviso, anzi, proprio per i loro sviluppi incruenti, in modo inatteso, inaspettato. Incredulo l’Occidente. Presi in contropiede, sconvolti, i dirigenti dell’Urss. L’occasione per ripercorrere le tappe più importanti del pontificato di Karol Wojtyla sarà venerdì 8 novembre alle 18,30 la conferenza al Tennis Club Parioli (Roma, Largo Uberto De Morpurgo 2) per la  presentazione del libro “Chi ha paura di Giovanni Paolo II? Il Papa che ha cambiato la storia del mondo” (Rubbettino Editore, con la prefazione del cardinale Stanisłao Dziwisz) alla quale interverranno il cardinale Edoardo Menichelli, lo storico del cristianesimo Andrea Riccardi, l’europarlamentare Silvia Costa, il decano dei vaticanisti ed ex vicedirettore dell’Osservatore romano, Gianfranco Svidercoschi. Il porporato analizzerà nella sua relazione il contributo di Karol Wojtyla alla riforma e alla modernizzazione della Chiesa sotto il profilo pastorale, il fondatore della Comunità di Sant’Egidio approfondirà il ruolo geopolitico del pontificato di Giovanni Paolo II raccontando anche gli incontri tra il Pontefice e Sant’Egidio a partire dal primo, subito dopo l’elezione al Soglio di Pietro, in una parrocchia del popolare quartiere romano di Garbatella, mentre Silvia Costa parlerà della particolare sollecitudine del Papa canonizzato da Jorge Mario Bergoglio per l’universo femminile. “Il 1989 aveva avuto una lunga gestazione – spiega Svidercoschi -.Una gestazione sotterranea, come un fiume carsico. Avviata dall’Atto finale di Helsinki nel 1975. Mosca aveva ottenuto quel che voleva: l’inviolabilità delle frontiere, quindi la riconferma della divisione dell’Europa in due, come aveva preteso Stalin a Yalta. Ma da Helsinki era anche uscito il sostegno alla causa dei diritti umani, al rispetto delle libertà individuali e collettive, compresa la libertà religiosa”. E, tutto questo, aveva aperto una crepa nell’impero sovietico: una fenditura che, allargandosi sempre più, aveva corroso dall’interno l’ideologia marxista.

1989: nulla fu più come prima

Nello stesso tempo, il 1989 aveva avuto anche una preparazione, per così dire, visibile, alla luce del sole. C’era stata la rivoluzione ungherese (1956) e la Primavera di Praga (1968), ambedue soffocate tragicamente nel sangue. Ma poi, dall’inizio degli anni Settanta, il dissenso era spuntato un po’ in tutto l’Est europeo, anche se in forme e modalità assai differenti. In Cecoslovacchia, era nata Charta 77, una protesta di élite, di circoli intellettuali. Mentre, in Polonia, il contrasto si era via via trasformato in un movimento di popolo. In Polonia, appunto. “Un Paese con una popolazione a grande maggioranza cattolica. E dove la Chiesa, forte, compatta, aveva un profondo radicamento in tutti i settori sociali – puntualizza Svidercoschi -. Nel 1956, a Poznań, c’era stata la prima delle “piccole rivoluzioni”, come le chiamava il primate, il cardinale Stefan Wyszyński; ma, pilotata da ambienti revisionisti, ancora interna al sistema, era finita nel nulla. Nel 1968, a rivoltarsi erano stati intellettuali e studenti”. Nel 1970, sul Baltico, la prima vera rivolta operaia, i primi sindacati clandestini. Nel 1976, a Radom e Ursus, erano di nuovo scesi in piazza i lavoratori, ma stavolta con l’appoggio degli altri gruppi sociali: da quella inedita solidarietà, quattro anni dopo, sarebbe nato il primo sindacato libero nell’impero comunista.

Un evento straordinario

Intanto, però, c’era stato un evento straordinario: il 16 ottobre del 1978 dal Conclave era uscito eletto il cardinale Karol Wojtyla, arcivescovo di Cracovia. Il primo Papa non italiano, dopo 456 anni. Un Papa che veniva dall’altra parte della cortina di ferro. “Ed e qui che la storia aveva avuto un soprassalto – afferma Svidercoschi -. Perché, proprio grazie a chi in quel momento sedeva sulla cattedra di Pietro, Solidarność prima aveva resistito alla repressione, e poi era diventato l’apripista del grande cambiamento in senso democratico all’Est”. Scriverà Enzo Bettiza: “Il comunismo è morto di comunismo, il moloch ha divorato se stesso”. Ma era stata la Polonia, “protetta” dal suo Papa. a dare il colpo del ko al regime marxista, ad accelerarne il tracollo, il definitivo fallimento. Lo aveva riconosciuto anche Michail Gorbaciov, arrivato in Vaticano nel dicembre del 1989: “Tutto ciò che è successo nell’Europa orientale in questi ultimi anni non sarebbe stato possibile senza la presenza di questo Papa, senza il grande ruolo, anche politico, che lui ha saputo giocare sulla scena mondiale”. A questo punto, viene quasi naturale porsi una domanda. “Ma se invece di un Papa polacco, e dunque un pontefice con quella provenienza, con quella biografia, con quella esperienza, ci fosse stato un Papa arrivato da un altro Paese comunista, ad esempio, diciamo, ungherese, oppure cecoslovacco, o tedesco-orientale, ebbene, la caduta del Muro e il tramonto del marxismo, sarebbero avvenuti in tempi così incredibilmente brevi? E senza contrasti, senza gravi contraccolpi e, soprattutto, senza spargimenti di sangue?” si chiede Svidercoschi. E ancora. E se quel 13 maggio Ali Ağca avesse mirato piu “giusto” di come aveva tentato di fare e, molto probabilmente, di come gli avevano ordinato di fare . “Ma lei perché non e morto?”, chiese a Giovanni Paolo II andato a trovarlo in carcere.

Momenti di crisi dell’umanità

“Ebbene, se quei colpi fossero arrivati a segno, la storia dell’Europa, ma anche quella del mondo intero, sarebbero andate nel modo in cui sono andate? – aggiunge Svidercoschi – Infatti, oltre che per la riunificazione dell’Europa, l’azione svolta da Papa Wojtyla si era sviluppata su vari fronti. Era stata determinante per il ritorno di molti Paesi latino-americani alla democrazia, per ridare voce e dignità ai popoli del Sud, e forse addirittura, al tempo dei conflitti del Golfo, per evitare una spaventosa guerra di civiltà”. I suoi viaggi avevano fatto sì che la Chiesa, con una crescente autorevolezza morale, fosse più vicina al mondo, e il mondo, a sua volta, più vicino alla Chiesa. E spesso, nei momenti di crisi dell’umanità, con i “grandi” della Terra pavidi e silenziosi, era stato soltanto lui, Wojtyla, a parlare, a intervenire, a denunciare. Soltanto lui a testimoniare la speranza in un futuro che poteva essere diverso, nel segno della pace, della giustizia. “Tutto può cambiare”, ripeteva di continuo. “Si, noi possiamo cambiare il corso degli eventi”. Allora, come si fa a dimenticare un Papa così? “Per Karol Wojtyla, da vescovo, il Concilio Vaticano II era stato un’esperienza straordinaria – sottolinea il decano dei vaticanisti che al Concilio fu inviato per l’Ansa -. Anzitutto, aveva rappresentato una grande scuola di approfondimento dottrinale, anche per il confronto con le nuove tendenze teologiche, e di aggiornamento pastorale”.

Visione cristocentrica

Non solo. “Attraverso il dibattito conciliare, monsignor Wojtyla aveva ritrovato, e quindi maturato, molte delle questioni che aveva affrontato nel suo ministero episcopale a Cracovia. Come il rinnovamento liturgico, l’ecumenismo, i rapporti con l’ebraismo, una più attiva partecipazione della Chiesa – aggiunge Svidercoschi -. Per non parlare della libertà religiosa, un problema profondamente avvertito in un Paese oppresso da due totalitarismi, l’uno dopo l’altro, quello nazista e quello comunista. Il Concilio, insomma, era stato una svolta per il giovane arcivescovo”. Da lì, infatti, era partito, con un sinodo diocesano, per riplasmare la vita della comunità ecclesiale di Cracovia. E da lì, diventato Papa, si era ispirato per quelle che sarebbero diventate tra le maggiori caratteristiche del suo pontificato: un nuovo umanesimo, con la riaffermazione della centralità della persona in una visione fortemente cristocentrica; e l’apertura, con il Vangelo in mano, al mondo, per ristabilire un dialogo depurato ormai da ogni pretesa di integralismo, ma anche per rivendicare il rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali dell’uomo, di ogni uomo. E dunque, osserva Svidercoschi, chi se non un autentico “figlio” del Concilio, con la sua memoria storica, con il suo messianismo tipicamente slavo, e con l’ansia che si portava dentro all’avvicinarsi del passaggio di millennio, chi se non uno come Karol Wojtyla-Giovanni Paolo II avrebbe sentito così intensamente l’esigenza di una profonda purificazione da parte della Chiesa? Nella indizione del Grande Giubileo del 2000, c’era tutto il suo progetto: quello di una Chiesa trinitaria, cioé di un insieme armonico di unita e molteplicità, di identità e diversità; una Chiesa piu spirituale, più evangelica, perché centrata sul primato della parola di Dio; una Chiesa più carismatica, più laicale, e meno istituzionale, meno gerarchica, meno clericale; una Chiesa maestra ma anche madre, anche misericordiosa, più rispettosa della coscienza del singolo credente, e non più dominata dal moralismo, da una vita cristiana caricata fondamentalmente di divieti, di pesi inutili; una Chiesa autenticamente universale, con un progressivo spostamento del baricentro verso il sud del mondo, l’Africa, l’Asia, l’America Latina, ma anche con una nuova attenzione ai Paesi dell’Occidente sempre più secolarizzati, scristianizzati.

L’audacia della fede

“Sì, certo, c’erano stati anche errori, così come c’erano stati ritardi, omissioni, evidenzia Svidercoschi. Come l’aver lasciato (o l’essere stato obbligato a lasciare, lui che veniva da “fuori” e aveva incontrato subito una forte diffidenza) troppo spazio e troppa autorità alla Curia romana. O l’aver tardato (forse perché poco o male informato) ad affrontare la gravissima questione dei preti pedofili, fin dal primo momento in cui era scoppiata alla superficie. O a causa di certe nomine e di certe decisioni, non sempre trasparenti, negli ultimi mesi di pontificato, quando la malattia di Wojtyla si andava aggravando, e forse, di conseguenza, anche la sua presenza era meno incisiva (e qualcuno, dei maggiori collaboratori attorno a lui, se ne era approfittato)”. E, comunque, tutto questo niente toglie alla grandezza di un Papa che aveva cominciato il suo ministero con un invito all’audacia della fede, ossia a vivere la fede nella società contemporanea senza paure, senza complessi; e a guardare la storia con gli occhi stessi di Dio: quelli della misericordia, della pace, della giustizia, della fraternità universale. Un Papa che aveva realizzato concretamente, portandole ancora più avanti, molte delle nuove prospettive aperte dal Concilio: la Chiesa come popolo di Dio, la libertà religiosa e i diritti umani, le relazioni con l’ebraismo, con l’Islam, e le tematiche sociali della Gaudium et spes, dalla difesa della famiglia al ripudio totale della guerra. Il primo Papa a entrare in una sinagoga, in una moschea. Il primo Papa a riunire i rappresentanti di tutte le Chiese e le religioni a pregare per la pace. Il primo Papa a “inventarsi” le giornate mondiali della gioventù. “Allora, come si fa a dimenticare un Papa cosi? Come si fa a dimenticare un pontificato che ha cambiato la storia della Chiesa e del mondo?”, domanda Svidercoschi.

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