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Utero in affitto, Strasburgo dà ragione all’Italia: “Niente figli senza legame biologico”

Vietare il riconoscimento di un figlio che non abbia alcun legame biologico con i pretesi genitori, e sia stato generato con il ricorso alla maternità surrogata, non viola l’articolo 8 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Lo ha stabilito la Corte dei diritti umani di Strasburgo che, ribaltando un pronunciamento della stessa corte del 27 gennaio 2015, ha dato un colpo alle pratiche di “utero in affitto” affermando che l’Italia non ha violato il diritto di una coppia sposata negando la possibilità di riconoscere come proprio figlio un bambino nato in Russia da madre surrogata.

La decisione

La sentenza definitiva della Corte europea dei diritti umani riguarda il ricorso presentato a Strasburgo nel 2012 da una coppia di Colletorto (provincia di Campobasso), contro la decisione del tribunale dei minori di togliergli definitivamente il bambino, misura che secondo loro ha violato il loro diritto al rispetto della vita privata e familiare. Ma i giudici della Corte di Strasburgo hanno stabilito che se le autorità italiane “avessero accettato di lasciare il bambino con la coppia, dandogli la possibilità di divenirne i genitori adottivi, questo sarebbe equivalso a legalizzare una situazione creata dalla coppia in violazione di importanti leggi nazionali”, tra cui quella che regola le adozioni. La Cedu ritiene quindi legittimo “il desiderio delle autorità italiane di riaffermare l’esclusivo diritto dello Stato di riconoscere una relazione genitori-figli solo in presenza di un legame genetico o di un’adozione legale“.

Il caso

La vicenda ha i connotati del caso limite. I coniugi si erano, infatti, rivolti a una società russa specializzata nel settore che aveva provveduto a impiantare l’embrione concepito in vitro nell’utero della donna scelta. Un successivo test del dna aveva accertato la mancanza di legami biologici anche con il preteso padre. Di conseguenza, il Tribunale dei minori aveva deciso di togliere immediatamente il bimbo alla coppia e di porlo sotto tutela, proprio per l’assenza di legame biologico. Il piccolo era stato portato in una casa di accoglienza ed era stato vietato qualsiasi contatto con i coniugi. Successivamente era stato affidato a una famiglia. Il bambino è stato dunque considerato, da un punto di vista amministrativo, figlio di genitori ignoti. I due erano poi stati imputati per falsa dichiarazione di stato civile, falso e violazione della legge sull’adozione internazionale.

Autonomia salvaguardata

“Casi estremi come questo dimostrano che la pratica dell’utero in affitto va contro il buon senso – spiega a In Terris la professoressa Paola Ricci Sindoni dell’Associazione “Scienza e Vita – i progressi della scienza sul tema della procreazione assistita sono importanti. Ma ci sono dei limiti: non tutto quello che si può fare si deve anche fare“. Anche perché: “La maternità surrogata va oltre la normale percezione della genitorialità“. Pertanto “ben venga questa sentenza della Corte di Strasburgo che rimanda alle nazioni l’arbitrio in materia. Essa salvaguarda l’autonomia legislativa degli Stati nelle materie attinenti i valori culturali propri di ogni comunità nazionale. E questo nonostante le massicce normative europee che hanno teso a omologare i singoli Stati su scelte valoriali”.

Esultanza

Esultano anche le associazioni della galassia del Family Day. “La sentenza della Corte europea ha ribadito che i bambini non possono essere comprati e che uno Stato ha tutto il diritto di vietare e perseguire la barbara pratica dell’utero in affitto” ha commentato Massimo Gandolfini, presidente del Comitato difendiamo i nostri figli. “Questi pronunciamenti spingono ogni Stato a fare la sua parte nella lotta contro il mercimonio dei bambini e dell’utero donne e ad impegnarsi affinché questa pratica sia messa al bando da tutta la comunità internazionale” conclude. La sentenza “è una storica vittoria dei più elementari diritti umani, ma soprattutto la prova che la mobilitazione della società civile a tutti i livelli è fondamentale” ha affermato Filippo Savarese, portavoce dell’associazione Generazione Famiglia, la quale, ricorda, “promosse una petizione online per chiedere al Governo di ricorrere contro la condanna di primo grado e in pochi giorni raccolse oltre 30.000 firme”.

 

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