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Subire lo stupro e rinunciare a uccidere: incubo e forza di una poliziotta

Tanti i mazzi di fiori in quella casa silenziosa e signorile; tanti i parenti e gli amici che si alternano per portare conforto, a lei e alla sua famiglia. Mary – nome di fantasia – mi ha chiesto di incontrarci. Sono corso. Avevo appreso dai giornali l’orribile esperienza che aveva dovuto subire una settimana fa, ma non la conoscevo di persona. Entro.

Poco dopo, eccola scendere dal piano superiore, insieme alla mamma. È una bellissima ragazza di trent’anni, capelli lunghi, sguardo dolce, sulle labbra un sorriso che fa fatica a durare a lungo, l’occhio destro fortemente tumefatto.

Ci abbracciamo come se ci conoscessimo da sempre. Mi verrebbe da chiederle – a nome di tutte le persone di sesso maschile – perdono per il dramma che ha dovuto subire. Si, perché Mary è stata stuprata. Un uomo violentemente è entrato dentro di lei, le ha rubato la serenità. Mi accorgo poi che anche le sue ginocchia sono escoriate, mentre un’unghia della mano destra le è stata letteralmente estirpata. Mary non è una donna qualunque, è una poliziotta e ha con sé l’arma di servizio.

Ha terminato il suo turno di lavoro, a Napoli, quando, passata da poco la mezzanotte, si avvia verso la sua auto in sosta, per fare ritorno a casa. Sta già pregustando il dovuto riposo, quando si accorge distrattamente di essere seguita. Non da peso alla cosa, non pensa che qualcuno possa avercela con lei. Avviene, invece, tutto alla velocità del lampo. L’uomo – 23 anni, di origine bengalese – la raggiunge, la colpisce ripetutamente con una pietra, la trascina per qualche metro in una zona d’ombra e la violenta. Come un animale. Un animale che sbrana la sua preda. Per tutto il tempo le tiene una mano stretta sul collo come a volerla strozzare. Mary pensa che arriverà ad ammazzarla.

Pensa di fare leva sui suoi sentimenti, lo prega di desistere, di andarsene, che a casa l’aspettano i suoi figli. Non è vero, Mary non ha figli, ma anche se li avesse, la cosa non sembra scuotere minimamente l’energumeno. Dopo essersi ripresa – crede infatti di essere svenuta – avrebbe potuto tentare di estrarre la pistola e uccidere il suo aguzzino. Non lo fa. I minuti passano. Quanti esattamente? La poliziotta ha perso la cognizione del tempo, pensa che siano stati 4 forse 5, tutto è così strano, così confuso, così irreale. Solo le telecamere sveleranno che per più di 20 minuti lei è stata prigioniera della violenza. Finalmente lo scellerato si alza. Le rivolge le ultime offese, le intima di non alzarsi ancora e se ne va. L’incubo è terminato. O è appena cominciato?

Perché da quella sera, Mary, come tutte le donne umiliate, violentate, stuprate, deve fare i conti con se stessa, con i ricordi che non le daranno tregua, con gli uomini con i quali entrerà in contatto in futuro. La poliziotta coraggiosa che non ha voluto ammazzare l’uomo che le stava rovinando la vita, dovrà reimparare a riprendere in mano le redini della vita. Dovrà essere determinata, forte perché la fiducia nei maschi che incontrerà non venga meno; per continuare a ridere e a scherzare.

Stando accanto a questa giovane donna, mi sono reso conto che noi maschi – a cominciare da quei giudici che nel tempo hanno emesso a riguardo certe strane sentenze – per quanto possiamo sforzarci, non riusciremo a capire mai che cosa voglia dire davvero per una donna essere stuprata. Possiamo solo metterci in ascolto – se e quando ne ha voglia – del suo racconto, delle sue paure, dei suoi incubi, della sua rabbia, del suo desiderio di giustizia e abbassare la testa per la vergogna.

Di fronte a questa ragazza dolce e tanto provata si rimane senza parole. Lei riesce perfino a sorridere, a parlare di ciò che accade in Italia e nel mondo, dei rapporti con i colleghi che hanno, nel giro di poche ore, acciuffato lo stupratore, ma poi, il ricordo di quella notte prende il sopravvento e la scaraventa nell’abisso. Forza, Mary! Con te chiediamo con forza che la giustizia svolga bene e presto il proprio compito. E a te e a tutte le donne umiliate e stuprate da esseri meschini e miserabili, chiediamo perdono.

La riflessione di don Maurizio Patriciello è stata pubblicata su Avvenire. Cliccando qui è possibile vedere l’articolo.

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