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Sedazione a un malato di Sla, il prof. Spagnolo: “Le differenze con l’eutanasia”

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Mentre la politica è impegnata ad affrontare la delicatissima partita della legge sul “testamento biologico” da Montebelluna (Treviso) una storia sulla quale è opportuno interrogarsi. Quella del primo caso di “sedazione palliativa” applicata sino al momento del decesso a Dino Bettamin, 70 anni, da 5 malato di Sclerosi laterale amiotrofica. Ne abbiamo parlato con il professor Antonio Gioacchino Spagnolo, direttore dell’Istituto di Bioetica e Medical Humanities, presso la facoltà di Medicina del Policlinico “Agostino Gemelli” di Roma.

Prof. Spagnolo qual è il confine tra sedazione palliativa profonda ed eutanasia?
“Bisogna fare riferimento alle intenzioni e ai mezzi utilizzati. Perché si possa parlare di sedazione palliativa sono necessari tre requisiti. Il primo è che la sofferenza e l’angoscia del paziente non possano essere affrontati con altri mezzi efficaci, si parla in questo caso di sintomo refrattario. Il secondo è che il farmaco utilizzato non abbia la funzione di anticipare la morte ma solo quella di annullare la coscienza. Una cosa di per sé impegnativa ma cui si può far ricorso se non ci sono altre possibilità. Il terzo è quello del consenso informato”.

Le sembra che siano stati soddisfatti nel caso di Montebelluna?
“Dalle dichiarazioni dei sanitari e dei familiari del paziente sembra proprio di sì”.

Nessun dubbio?
“Non conosciamo l’effettiva situazione clinica del paziente, quindi non possiamo sapere con certezza come siano andate le cose”.

Un eventuale sovradosaggio dei sedativi utilizzati in questi casi può portare alla morte del paziente?
“Sì, perché si tratta di farmaci che deprimono il sistema respiratorio. Ma il fatto che il respiratore non sia stato staccato fa presumere la buona fede di chi ha eseguito il trattamento”.

Staccarlo non avrebbe reso esplicita la volontà di anticipare il decesso?
“No, perché in casi del genere il respiratore è una misura opzionale. Se il paziente non lo volesse non si potrebbe dire che voglia morire. Di solito noi lo consigliamo, perché consente al malato di godere di altri aspetti della vita, come la vicinanza dei propri cari. Ma col passare del tempo può diventare gravoso e il paziente può liberamente chiedere di staccarlo”.

Il caso

Malato da 5 anni anni e ridotto alla paralisi, Bettamin aveva espresso il desiderio di “dormire sino all’arrivo della morte, senza più soffrire”, rifiutando qualsiasi trattamento, compresa la nutrizione artificiale. Detto fatto, lo scorso 5 febbraio la Guardia medica ha aumentato il dosaggio del sedativo che già l’uomo prendeva per flebo e il giorno successivo la dottoressa dell’assistenza domiciliare ha iniziato a somministrare gli altri farmaci del protocollo. “Non ha mai chiesto di spegnere il respiratore, nonostante la legge lo consenta nei casi di sedazione profonda – ha riferito l’infermiera – anzi, lo terrorizzava l’ipotesi di morire soffocato. Ha optato per una scelta in linea con la legge, la bioetica e la sua grande fede”. Ieri quando la moglie lo ha rassicurato di aver fatto tutto quanto le aveva chiesto, Dino si è lasciato andare ed è morto nel sonno, come voleva.

La richiesta

“Era una chiara richiesta di sedazione basata su un chiaro sintomo refrattario, dato da un’angoscia incoercibile anche con farmaci e trattamenti psicologici – hanno spiegato i sanitari di “Cura con Cura“, la società privata che dal 2015 si occupa dell’assistenza domiciliare del paziente – nonostante tutta l’umanità e la professionalità con cui è stato assistito nelle varie fasi della patologia”. Dino sapeva che gli rimanevano pochi giorni di vita. “Mio marito era lucido – racconta la moglie – e ha fatto la sua scelta. Così dopo l’ultima grave crisi respiratoria è iniziato il suo cammino”.

La testimonianza

Sulla vicenda è intervenuto anche mons. Antonio Genovese, parroco del Duomo di Montebelluna che ha offerto sostegno spirituale a Bettamin durante il corso della malattia e negli ultimi giorni della sua vita. “Spero di sentire solo parole di vicinanza e rispetto in questi giorni, per Dino e per tutte le persone coinvolte, non giudizi sommari. Io stesso da Dino e dal suo modo di vivere la sofferenza sono stato edificato” ha detto il sacerdote.

“Ho seguito Dino in questi due anni e mezzo, da quando sono arrivato a Montebelluna – ha raccontato il parroco -. Era una persona buona, che ha portato la propria sofferenza con grande coraggio, ha combattuto insieme alla moglie e ai figli, ma ultimamente soffriva moltissimo, per le crescenti difficoltà causate dalla malattia e per la perdita di alcune persone care”. Di fronte a queste sofferenze crescenti e senza alcuna possibilità di migliorare “ha chiesto semplicemente di essere accompagnato attraverso il sonno verso l’incontro con il Signore, sempre sostenuto con fiducia e forza dalla sua famiglia. Era una persona di grande fede, pochi giorni fa ha chiesto di ricevere il sacramento dell’Unzione degli infermi. Era lucido, abbiamo pregato insieme. Si è davvero fatto accompagnare alla Casa del Padre, con fiducia e abbandono. Non è stata staccata alcuna spina, la sedazione profonda è prevista dalle cure palliative per attenuare il dolore”. La morte, ha aggiunto il presbitero, “per noi cristiani non è un rifiuto della vita, e non lo è certo stato per Dino ma è un andare incontro al Signore. Chi gli è stato accanto ha potuto leggere, in questo suo desiderio di andare al Padre, lo stesso desiderio espresso da Giovanni Paolo II, al termine della sua vita, quel ‘lasciatemi andare’ frutto di fede e di abbandono nelle braccia del Signore della vita”.

Luca La Mantia: