Il cardinale Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna in un’intervista rilasciata ai media vaticani mette in risalto il collegamento esistente tra il sinodo che la Chiesa sta vivendo e quello del 1985 dedicato alla comunione ecclesiale
L’intervista
Andrea Tornielli
«La sinodalità è il modus operandi della comunione ecclesiale, la partecipazione anche su questioni e decisioni di governo, su aspetti della vita della Chiesa. Il Sinodo sulla sinodalità è un sinodo su come si vive in modo evangelico la comunione ecclesiale, il camminare insieme di tutti i membri del popolo di Dio». Con queste parole, in un’intervista con i media vaticani, il cardinale Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna, sintetizza il punto focale dell’ormai prossima assemblea sinodale, facendo notare il collegamento tra il sinodo che la Chiesa sta vivendo e quello del 1985 dedicato alla comunione ecclesiale. Una sottolineatura che fa comprendere come la comunione e il tendere all’unità – ut unum sint – venga prima delle differenti posizioni, con l’augurio che ne determini anche il modo di presentarle e discuterle.
Eminenza, sta per avere inizio il primo dei due sinodi sulla sinodalità: che cosa si aspetta che possa emergere da questo lavoro comune?
«Tante cose possono accadere in questo sinodo, non lo sappiamo. Papa Francesco ci ha messo su una strada abbastanza unica, quella dell’ascolto e del discernimento. Sono cose sempre da fare, sono cose elementari per la vita della Chiesa, ma il Papa ha messo un accento molto più esplicito sulla questione del discernimento: che cosa ci mostra il Signore? Cosa vuole per noi oggi, per la Chiesa? E dunque il sinodo è un tentativo di approfondire, di imparare, di sperimentare questo cammino del discernimento».
Nella Chiesa di Vienna, qualche anno fa, avete celebrato un sinodo diocesano. Che cosa è avvenuto?
«Devo correggerla un po’, perché non è stato un sinodo diocesano. Il sinodo diocesano ha regole molto precise stabilite nel Diritto canonico. Io avevo l’idea, e l’abbiamo condiviso con molti, di prendere un altro cammino, quella delle assemblee diocesane. Ne abbiamo fatte cinque, ognuna con 1.400, 1.500 delegati provenienti dalle parrocchie, dalle istituzioni, dagli ordini, da tutte le realtà della diocesi. L’idea direttrice è stata quella che Papa Francesco ha accennato parecchie volte, quella del Concilio degli Apostoli, che leggiamo negli Atti. Ho proposto alla diocesi: parliamo tra noi in un modo ordinato su ciò che abbiamo sperimentato del cammino con il Signore, che cosa Dio ci ha fatto percepire nella nostra vita, nelle nostre parrocchie».
Che cosa l’ha colpita di più dello svolgimento del processo?
«La metodologia è stata quella degli Atti degli Apostoli. A quel tempo c’era un problema, quello dei pagani diventati cristiani: bisognava battezzarli oppure no? E se si battezzavano, dovevano anche assumere la legge ebraica o bastava la fede in Cristo? Per risolvere questa drammatica questione, hanno ascoltato le esperienze e hanno fatto il discernimento. Pietro ha parlato, dopo Paolo e Barnaba hanno parlato e finalmente tutta l’assemblea ha ascoltato e ha pregato. Alla fine sono arrivati a questa conclusione: “Lo Spirito Santo e noi abbiamo deciso…”. Quando Papa Francesco mi ha chiesto di fare la prolusione per il 50.mo anniversario dell’istituzione del sinodo nel 2015, nell’Aula Paolo VI, prima del suo famoso discorso sulla sinodalità, io ho dovuto fare una sintesi di ciò che è il sinodo è ho parlato innanzitutto dell’esperienza della Chiesa primitiva. E penso che questa strada – Papa Francesco l’ha ripetuto spesso – la strada del raccontare, ascoltare e discernere sia buona per il cammino del sinodo che viviamo adesso».
Qual è il bilancio delle assemblee diocesane?
«Ciò che abbiamo cercato di fare in diocesi ha certamente approfondito la comunione tra di noi, ha incoraggiato le iniziative pastorali. Non abbiamo votato, non abbiamo fatto risoluzioni né pubblicato testi: solo abbiamo condiviso la vita della Chiesa alla luce delle nostre esperienze. Questo è stato il metodo di queste cinque assemblee diocesane. È stata un’esperienza molto positiva, in un tempo difficile, perché è avvenuto tutto il dramma degli abusi e la crisi della credibilità della Chiesa. Ma veramente abbiamo fatto una forte esperienza di fede e di comunione e questo ha aiutato certamente ad andare avanti senza scoraggiarsi».
“Sinodo sulla sinodalità”: può apparire un titolo lontano dalla sensibilità della gente, un titolo un po’ tecnico. Che cosa ne pensa?
«Ho partecipato al sinodo del 1985 non come vescovo ma come teologo, ero uno dei teologi che hanno collaborato a questo sinodo che si teneva vent’anni dopo la chiusura del Concilio e il tema era la comunione, la communio, parola essenziale del Vaticano II. Anche quel sinodo non aveva un tema specifico ma era quasi un sinodo sulla comunione: la communio, come nota essenziale della Chiesa, come caratteristica della vita ecclesiale. E penso che il sinodo sulla sinodalità sia qualche cosa di simile. La sinodalità è molto semplice: è il modus operandi della comunione ecclesiale, la partecipazione anche su questioni e decisioni di governo, su aspetti della vita della Chiesa. Quello sulla sinodalità è un sinodo su come si vive in modo evangelico, in modo corrispondente alla vita del Vangelo, la comunione ecclesiale, il camminare insieme del popolo di Dio, di tutti i membri del popolo di Dio. Certo, si può dire che la maggior parte dei sinodi dopo il 1965 hanno avuto un tema più specifico: ad esempio la penitenza o la famiglia, come l’abbiamo avuto nel 2014-15. Ma penso che questo tema della sinodalità sia un ulteriore passo nella ricezione del Concilio Vaticano II, la communio e il modus operandi della communio, la sinodalità. Non bisogna poi dimenticare che il camminare insieme della sinodalità non avviene solo nella contemporaneità, ma anche nella storia. E dunque sinodalità vuol dire anche far memoria del cammino di chi ci ha preceduto nella fede».
Papa Francesco insiste nel sottolineare che il sinodo è fatto di preghiera, ascolto della voce dello Spirito Santo, ascolto reciproco e discernimento. Ed è diverso dai lavori di un parlamento – altrettanto positivi – che sono soggetti alle logiche di maggioranza e minoranza.
«Lei ha detto che i lavori di un parlamento sono una cosa positiva. Siamo grati per tutti i Paesi che hanno un parlamento, un vero parlamento, una democrazia parlamentare. Vorrei aggiungere una piccola nota. Certo, il parlamento non invoca esplicitamente lo Spirito Santo: in alcuni parlamenti esiste la tradizione della preghiera, sono rari ma esistono. Ma io penso a quel discorso stupendo di Papa Benedetto al parlamento di Londra, dove ha mostrato che anche nella democrazia parlamentare c’è qualcosa del discernimento… Aveva parlato della coscienza di Thomas Moore che ha dovuto assumere un atteggiamento contrario al re, ma anzitutto aveva parlato di una decisione del parlamento di Londra, quello dell’abolizione della schiavitù, mostrando come era avvenuto nelle discussioni parlamentari un progresso della presa di coscienza che la schiavitù è contraria alla dignità umana. Per questo vorrei aggiungere una parola positiva sul lavoro del parlamento. Anche se certamente il sinodo non è un parlamento, ciò non vuol dire che il lavoro del parlamento non sia una cosa buona».
Può spiegare questa differenza tra sinodo e parlamento?
«La differenza è quella che la sinodalità, la vita nella Chiesa, è sempre una ricerca dell’unanimità non nel senso parlamentare che tutti devono votare allo stesso modo – come accade nelle dittature o nel comunismo – ma come tensione all’unità. È ascolto della voce dello Spirito Santo che va avanti nella ricerca della verità, nella ricerca del bene fino ad arrivare ad una quasi unanimità. È ciò che hanno fatto i concili e anche i sinodi che ho conosciuto: la regola del sinodo è che vi siano votazioni, ma queste devono ottenere due terzi dei voti. Non dimentichiamo inoltre che il sinodo è consultivo, non è un organo di legislazione. Serve per l’ascolto, l’ascolto comune della voce dello Spirito Santo. Per questo motivo il Papa ha voluto sia per il sinodo sulla famiglia come anche per questo sulla sinodalità, due tappe o parecchie tappe, quelle locali, continentali, etc. E alla fine due riunioni dell’assemblea sinodale perché è un cammino verso una unanimità che deve sempre essere ut sint cor unum et anima una, come si dice della Chiesa primitiva: erano un cuor solo e un’anima sola. Questa concordia è il segno dello Spirito Santo».
Che cosa significa, concretamente, “ascoltare la voce dello Spirito”?
«Il Papa ci ha insegnato – e lo pratichiamo già con buon frutto – il metodo della conversazione spirituale. In che cosa consiste? È ascoltare gli uni gli altri con rispetto, con accoglienza, per arrivare a un discernimento, per comprendere quale sia la volontà di Dio. E per me è stato impressionante che nel documento Querida Amazonia Papa Francesco abbia proposto una sua eco al sinodo sull’Amazzonia, al quale ho potuto partecipare. Lui in certi punti ha detto: qui mi sembra che sia mancato il discernimento, ci vuole più discernimento. Come sapere che abbiamo fatto il discernimento necessario per arrivare a una decisione? Questa certo è l’arte del governo del Papa ma anche della concordia del sinodo, dei membri sinodali. E dunque penso che andremo a vivere una forte esperienza di ecclesialità in questo ascolto. Certo, su molte domande e molte tematiche l’elenco delle questioni è lungo e ci sarà molto tempo da dedicare alla discussione e allo scambio su questa o quest’altra questione, ma sempre nella prospettiva dell’ascolto dello Spirito».
Una caratteristica sicuramente nuova di questo sinodo è stato il tentativo di coinvolgere e ascoltare in modo ampio le Chiese locali, facendo partecipare ai lavori le comunità e anche chi si è allontanato dalla Chiesa. È importante questo metodo e, se sì, perché?
«Sì, è importante ascoltare anche la voce di quelli che non sono “dentro”, che si sono allontanati, perché questa eco ci permette un migliore discernimento. E poi ascoltare la voce dei fedeli. Basta leggere il famoso piccolo libro di san John Henry Newman sull’ascolto dei fedeli in materia di fede. Questo piccolo libro scritto intorno al Concilio Vaticano I è molto importante per la nostra situazione della ricerca della sinodalità».
Cosa vuol dire ascoltare la fede del popolo di Dio?
«È il sensus fidei. Certo, questo non si scopre nelle statistiche. Se non facciamo questo lavoro dell’ascolto del sensus fidei non siamo in ascolto dello Spirito Santo perché ciò che nel sensus fidei del popolo di Dio vive, si percepisce, questo è il nodo, il cuore della fede della Chiesa. Penso a un’esperienza personale, quando ero giovane studente di teologia e ci insegnavano tutte le idee di Bultmann e della Entmythologisierung (demitizzazione, ndr). Una messa in questione radicale della fede cristiana. Io, venendo a casa, ne ho parlato a mia madre che mi ha ascoltato e dopo un certo tempo mi ha guardato in modo un po’ sorpreso e mi ha detto semplicemente questo: “Ma se Gesù non è il figlio del Dio vivente, la nostra fede è vuota”. Ho sempre detto che questa lezione di mia madre è stata per me quell’ascolto del popolo di Dio, della fede dei semplici, la fede del popolo di Dio. Per questo l’insistenza di Papa Francesco sulla religiosità popolare, sulla fede della gente – un’insistenza che troviamo già nel documento Aparecida – è davvero importante. Mi ricordo quella famosa predica dell’allora cardinale Ratzinger nel periodo della crisi con Hans Küng, quando disse: la teologia che non si mette umilmente al servizio, all’ascolto della fede del popolo di Dio, non serve, è la gnosi ma non è il servizio della fede. Perciò penso che il metodo di coinvolgere un gran numero di fedeli e anche le persone che si sono allontanate dalla Chiesa sia importante per il discernimento».
Un’altra caratteristica è la partecipazione di membri non vescovi, con l’inserimento di un numero significativo di fedeli laici e in particolare di donne. Come cambia la fisionomia del sinodo e quali saranno, secondo Lei, le conseguenze?
«Nei sinodi già da 50 anni sempre vi sono stati laici, uomini e donne, che partecipavano come esperti, come uditori e uditrici. Ora per la prima volta sono un buon numero di laici, uomini e donne, sono membri del sinodo a pieno titolo. Penso che sostanzialmente non cambi la fisionomia del sinodo, perché certo è un sinodo di vescovi, la maggioranza rimangono i vescovi, perché la tradizione sinodale è anzitutto quella dell’incontro dei vescovi della regione, della nazione, etc., Ma questa partecipazione dei fedeli laici è certamente importante per migliorare l’ascolto. Ho partecipato a un buon numero di sinodi e ricordo interventi di uomini e donne, laici, tra gli esperti, tra gli uditori, che hanno avuto un impatto profondo sui lavori. Questa volta si fa un passo di più per il coinvolgimento di queste voci. Ci saranno ancora in questo sinodo, saranno ancora presenti, gli esperti anche i delegati delle altre Chiese fraterne. Penso che sia semplicemente un arricchimento. Dobbiamo poi ricordare ancora una volta il Sinodo creato da Paolo VI più di 55 anni fa. Questo sinodo è concepito come la voce dell’episcopato della Chiesa universale presso il Successore di Pietro. Lo sappiamo bene, ci sono votazioni e votazioni molto significative, ma queste votazioni sono espressione del sensus fidelium, anche delle attese del popolo di Dio che alla fine vengono trasmesse al Papa per il suo ulteriore discernimento. Questa nuova partecipazione non cambia nella sostanza il senso di un sinodo post-conciliare».
Una conseguenza di quest’ampia partecipazione è stato l’inserimento, nell’Instrumentum laboris sinodale, di molti temi sui quali si discute da decenni. Ad esempio la richiesta di riforme specifiche per una maggiore partecipazione dei laici e delle donne alla vita della Chiesa, o un ripensamento su alcuni temi legati alla teologia morale. Quanto sono destinati a pesare nel Sinodo?
«Non saprei rispondere, lo vedremo. Ciò che ho percepito è che i sinodi continentali e anche l’eco di numerose conferenze episcopali nel mondo certamente insistono sulla questione della partecipazione dei laici alla vita della Chiesa. Si tratta di un tema già centrale nel Concilio Vaticano II. La partecipazione dei laici è al cuore delle intenzioni del Concilio e c’è ancora molto da imparare e da fare. Già san Giovanni XXIII aveva detto che il tema della donna nella vita della Chiesa è uno dei segni dei tempi, è una delle grandi domande che emergono in tutto il mondo e questo tema certamente sarà presente. Io però sono un po’ scettico sul fatto che l’elenco dei temi molto dibattuti soprattutto nel mondo occidentale secolarizzato siano così centrali per tutta la Chiesa. Faccio un esempio. Al sinodo sull’Amazzonia c’è stata da certi gruppi una forte pressione per arrivare a una decisione sui viri probati, l’ordinazione sacerdotale di uomini sposati. Forse sarò criticato per ricordarlo ma è stato detto al sinodo. Alcuni si sono chiesti: come è possibile che vi siano ben 1.200 preti della Colombia, Paese che ha molte vocazioni sacerdotali, che vivono negli Stati Uniti e in Canada? Perché un centinaio o duecento di loro non vanno in Amazzonia? Il problema della mancanza dei preti sarebbe risolto. Dunque penso che a volte ci voglia un po’ più di discernimento e anche di onestà nel vedere la complessità delle tematiche. In questo senso sono fiducioso che il sinodo sarà una bella e forte occasione, un’opportunità per discernere insieme su queste tematiche».
La secolarizzazione avanza nelle società occidentali, la trasmissione della fede che prima avveniva in famiglia sembra essersi interrotta. Come si torna ad annunciare il Vangelo in questi contesti? Come il prossimo Sinodo potrà aiutare in questo?
«Lei l’ha detto, la trasmissione della fede avveniva in famiglia. È vero che se non avviene questa trasmissione nella famiglia, la trasmissione della fede non è impossibile ma è molto più difficile. Per questo il doppio sinodo del 2014-15 sulla famiglia è molto importante per la trasmissione della fede. Ho fiducia che la trasmissione della fede avvenga e avviene perché è l’opera del Signore. È il Signore che chiama, che invita, è il Signore che agisce nel cuore delle persone, che attira come Gesù ha detto: “io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me”. Questa attrazione di Gesù è operante in tutto il mondo ma c’è bisogno anche coloro che aiutano a cogliere questa chiamata, quest’opera del Signore. Certo, la secolarizzazione è una grande sfida. Ma ancora una volta io richiamo Benedetto XVI che ha detto cose sorprendenti sulla società secolarizzata. Ricordo che quando si è recato nella Repubblica Ceca, un Paese molto molto secolarizzato, aveva detto: qui ci sono anche delle opportunità per lo Spirito Santo per agire, per essere operativo. E questo è vero. Dunque la secolarizzazione non è solo uno svantaggio, ha anche una parte positiva, nel senso che le questioni esistenziali personali si pongono in modo forse più diretto. E dunque il Signore è operante. Questo è il Vangelo: è forza di vita, suscita la vita e in questo senso sono fiducioso che questo sinodo, nonostante tutte le critiche che già si fanno, sarà un passo per portare avanti la comunione della Chiesa».
Fonte: Vatican New