Samir è un giovane migrante, uno come tanti. Arriva in Italia dal Bangladesh. Nel Paese asiatico viveva con la sua famiglia nella più estrema povertà, dentro una casa di fango. La fame e gli stenti erano pane quotidiano. Per procacciarsi un pugno di riso, l’unico alimento disponibile per sopravvivere, ogni giorno era costretto a percorrere tre ore di cammino per andare e altrettante per tornare.
“Un giorno – racconta a Interris.it – ad agosto del 2002, un mio parente mi ha offerto la possibilità di fare un viaggio in Europa per trovare un lavoro. Mi sono fidato e sono partito con la sper
Ma poi, circa due mesi dopo l’arrivo nel Belpaese, il “lavoro” si interrompe bruscamente. “Al distributore quella sera sono arrivati due italiani su un macchinone – dice senza nascondere una certa agitazione –. Erano ubriachi… Mi sono avvicinato per chiedere un’offerta, come al solito. Allora quello che guidava ha iniziato a dirmi che dovevo tornare a casa mia e a insultarmi pesantemente. Vista la situazione mi stavo allontanando, ma anche quell’altro è sceso dall’auto e senza dire niente mi ha dato un pugno. Sono crollato a terra…”. Samir non ricorda più nulla di ciò che è accaduto dopo.
Si risveglia solo quattro ore dopo su un letto di ospedale con un’amara sorpresa: non riesce più a muovere le gambe. Secondo la ricostruzione il colpo subito lo ha fatto cadere sulla schiena provocando un grave trauma alla colonna vertebrale. Il responso dei sanitari è definitivo: non potrà mai più camminare! Così inizia il suo lungo calvario all’interno di un ospedale della capitale. La sua condizione di malato grave e di clandestino producono una sorta di corto circuito: le istituzioni si dimenticano di lui tanto che Samir rimane “parcheggiato” in un letto di corsia per due lunghi anni.
“Non so nemmeno io come sono riuscito ad andare avanti in quel periodo. Mi dava forza pregare alcuni versi del Corano che ricordavo – afferma mentre una lacrima si affaccia sulla guancia –. Pensavo alla mia vita, alle speranze che avevo, a quello che si aspettavano i miei familiari… tutto finito!”. Ma Dio aveva in mente un altro futuro. Dopo tanti tentativi falliti, la direzione dell’ospedale riesce a trovare una sistemazione fuori regione per il ragazzo, presso una struttura di accoglienza per immigrati. In quella casa torna letteralmente alla vita. Inizia una riabilitazione di due anni con risultati sorprendenti: ricomincia gradualmente a camminare.
“E’ stato un miracolo – esclama Samir con la voce rotta da un filo d’emozione –. Mi avevano detto che non avrei più potuto camminare e avere una vita normale, invece tutto era cambiato!”. Nel 2006 trova un lavoro vero – regolare – e inizia a spedire i primi risparmi alla famiglia. Nel 2009 torna per un breve periodo in Bangladesh dove riabbraccia i suoi cari e – non affatto una rarità per quel tipo di cultura – sposa, nel giro di due settimane, una ragazza scelta dalla sua famiglia. Nel nostro Paese ora ha un impiego stabile, una famiglia felice ed è un cittadino perfettamente integrato nella società italiana. La sua storia è uno schiaffo a quanti credono che gli immigrati siano tutti dei criminali da respingere.
La vicenda di Samir risulta ancor più importante a poco più di una settimana dai drammatici attentati terroristici di Parigi che hanno sconvolto il mondo, nel momento in cui tornano le voci di chi vorrebbe serrare le frontiere a doppia mandata. E’ il caso della leader del Front National, Marine Le Pen, che ha chiesto la “sospensione immediata degli accordi di Schengen” sulla libera circolazione degli individui nell’Unione europea, auspicando il reintegro della pena capitale in quanto “strumento necessario nell’arsenale giuridico di un Paese”. In Italia le fa eco il segretario della Lega Nord Matteo Salvini che spinge per la sospensione del Trattato e la reintroduzione dei controlli alle dogane. Ma i disperati che sbarcano quotidianamente sulle nostre coste a rischio della vita non sono certo dei terroristi ingaggiati da Al Quaeda. E’ impensabile, infatti, che tali organizzazioni criminali, dopo aver addestrato i loro soldati per mesi e con ingenti spese, possano vedere vanificati i loro sforzi a causa della pericolosità della traversata. Così come è poco credibile che chi ha rischiato tutto, persino la propria vita, per arrivare in Europa in cerca di una strada nuova si uccida poco dopo in qualche attentato.
Dati alla mano, nel 2014 sulle coste e nei porti del sud dell’Italia sono arrivate ben 170 mila persone, il triplo rispetto al 2012-2013. Il bilancio dei morti si attesta addirittura attorno ai 3.500. Anche in memoria di queste vittime oggi la Chiesa celebra la 101esima Giornata mondiale del migrante e del rifugiato. In tutto il globo 230 milioni di persone – che costituiscono il cosiddetto “sesto continente” – peregrina da un luogo all’altro senza sosta alla ricerca di un futuro migliore. L’emigrazione, infatti, “resta ancora un’aspirazione alla speranza”, come recentemente dichiarato da Papa Francesco in un’udienza. Nel messaggio per la Giornata il vescovo di Roma ha spiegato che “alla globalizzazione del fenomeno migratorio occorre rispondere con la globalizzazione della carità e della cooperazione”. In una frase: va umanizzata la condizione dei migranti.