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Papa Francesco: “La cura della salute rappresenta un obbligo morale”

Il Santo Padre ha ricevuto in udienza i membri del Corpo Diplomatico per la presentazione degli auguri del nuovo anno

“E’ importante che possa proseguire lo sforzo per immunizzare quanto più possibile la popolazione. Ciò richiede un molteplice impegno a livello personale, politico e dell’intera comunità internazionale. Anzitutto a livello personale. Tutti abbiamo la responsabilità di aver cura di noi stessi, della nostra salute, il che si traduce anche nel rispetto per la salute di chi ci è vicino. La cura della salute rappresenta un obbligo morale. Ma in un mondo dai forti contrasti ideologici, tante volte ci si lascia determinare dall’ideologia del momento, spesso costruita su notizie infondate o fatti scarsamente documentati”. E’ quanto ha detto Papa Francesco, nell’aula della Benedizione, ricevendo in udienza i Membri del Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede per la presentazione degli auguri del nuovo anno.

Il testo integrale dell’udienza

Di seguito, riportiamo in forma integrale il discorso pronunciato da Papa Francesco. 

“Eccellenze, Signore e Signori! Ieri si è concluso il tempo liturgico del Natale, periodo privilegiato per coltivare i rapporti familiari, che a volte ci trovano distratti e lontani, affaccendati – come spesso siamo nel corso dell’anno – in molti altri impegni. Oggi, ne vogliamo continuare lo spirito, ritrovandoci insieme come una grande famiglia, che si incontra e dialoga. In fondo, questo è lo scopo della diplomazia: aiutare a mettere da parte i dissapori della convivenza umana, favorire la concordia e sperimentare come, quando superiamo le sabbie mobili della conflittualità, possiamo riscoprire il senso dell’unità profonda della realtà. Vi sono dunque particolarmente grato per aver voluto prendere parte quest’oggi al nostro annuale “incontro di famiglia”, occasione propizia per formularci reciprocamente i voti augurali per il nuovo anno e per guardare insieme alle luci e alle ombre del nostro tempo. Un particolare ringraziamento rivolgo al Decano, Sua Eccellenza il Signor George Poulides, Ambasciatore di Cipro, per l’amabilità delle parole che mi ha indirizzato a nome dell’intero Corpo diplomatico. Attraverso di voi, desidero far giungere il mio saluto e il mio affetto anche ai popoli che rappresentate. La vostra presenza è sempre un segno tangibile dell’attenzione che i vostri Paesi hanno per la Santa Sede e per il suo ruolo nella comunità internazionale. Molti di voi sono giunti da altre capitali per l’evento odierno, unendosi così alla nutrita schiera degli Ambasciatori residenti a Roma, che a breve vedrà aggiungersi pure quello della Confederazione Elvetica.

Cari Ambasciatori, In questi giorni vediamo come la lotta alla pandemia richieda ancora un notevole sforzo da parte di tutti e come anche il nuovo anno si prospetti impegnativo. Il coronavirus continua a creare isolamento sociale e a mietere vittime e, tra quanti hanno perso la vita, vorrei qui ricordare il compianto Mons. Aldo Giordano, Nunzio Apostolico ben conosciuto e stimato in seno alla comunità diplomatica. Allo stesso tempo, abbiamo potuto constatare che laddove si è svolta un’efficace campagna vaccinale il rischio di un decorso grave della malattia è diminuito. È dunque importante che possa proseguire lo sforzo per immunizzare quanto più possibile la popolazione. Ciò richiede un molteplice impegno a livello personale, politico e dell’intera comunità internazionale. Anzitutto a livello personale. Tutti abbiamo la responsabilità di aver cura di noi stessi e della nostra salute, il che si traduce anche nel rispetto per la salute di chi ci è vicino. La cura della salute rappresenta un obbligo morale. Purtroppo, constatiamo sempre più come viviamo in un mondo dai forti contrasti ideologici. Tante volte ci si lascia determinare dall’ideologia del momento, spesso costruita su notizie infondate o fatti scarsamente documentati. Ogni affermazione ideologica recide i legami della ragione umana con la realtà oggettiva delle cose. Proprio la pandemia ci impone, invece, una sorta di “cura di realtà”, che richiede di guardare in faccia al problema e di adottare i rimedi adatti per risolverlo. I vaccini non sono strumenti magici di guarigione, ma rappresentano certamente, in aggiunta alle cure che vanno sviluppate, la soluzione più ragionevole per la prevenzione della malattia. Vi deve essere poi l’impegno della politica a perseguire il bene della popolazione attraverso decisioni di prevenzione e immunizzazione, che chiamino in causa anche i cittadini affinché possano sentirsi partecipi e responsabili, attraverso una comunicazione trasparente delle problematiche e delle misure idonee ad affrontarle. La carenza di fermezza decisionale e di chiarezza comunicativa genera confusione, crea sfiducia e mina la coesione sociale, alimentando nuove tensioni. Si instaura un “relativismo sociale” che ferisce l’armonia e l’unità. Infine, occorre un impegno complessivo della comunità internazionale, affinché tutta la popolazione mondiale possa accedere in egual misura alle cure mediche essenziali e ai vaccini. Purtroppo occorre constatare con dolore che per vaste aree del mondo l’accesso universale all’assistenza sanitaria rimane ancora un miraggio. In un momento così grave per tutta l’umanità, ribadisco il mio appello affinché i Governi e gli enti privati interessati mostrino senso di responsabilità, elaborando una risposta coordinata a tutti i livelli (locale, nazionale, regionale, globale), mediante nuovi modelli di solidarietà e strumenti atti a rafforzare le capacità dei Paesi più bisognosi. In particolare, esorto gli Stati, che si stanno impegnando per stabilire uno strumento internazionale sulla preparazione e la risposta alle pandemie sotto l’egida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, ad adottare una politica di condivisione disinteressata, quale principio-chiave per garantire a tutti l’accesso a strumenti diagnostici, vaccini e farmaci. Parimenti, è auspicabile che istituzioni come l’Organizzazione Mondiale del Commercio e l’Organizzazione Mondiale della Proprietà Intellettuale adeguino i propri strumenti giuridici, affinché le regole monopolistiche non costituiscano ulteriori ostacoli alla produzione e a un accesso organizzato e coerente alle cure a livello mondiale.

Cari Ambasciatori, lo scorso anno, anche grazie all’allentamento delle restrizioni disposte nel 2020, ho avuto l’occasione di ricevere molti Capi di Stato e di Governo, nonché diverse autorità civili e religiose. Tra i molteplici incontri, vorrei qui menzionare la giornata del 1° luglio scorso, dedicata alla riflessione e alla preghiera per il Libano. Al caro popolo libanese, stretto dalla morsa di una crisi economica e politica che fatica a trovare soluzione, desidero oggi rinnovare la mia vicinanza e la mia preghiera, mentre auspico che le riforme necessarie e il sostegno della comunità internazionale aiutino il Paese a rimanere saldo nella propria identità di modello di coesistenza pacifica e di fratellanza tra le varie religioni presenti. Nel corso del 2021, ho potuto riprendere anche i viaggi apostolici. Nel mese di marzo ho avuto la gioia di recarmi in Iraq. La Provvidenza ha voluto che ciò accadesse, come segno di speranza dopo anni di guerra e terrorismo. Il popolo iracheno ha diritto a ritrovare la dignità che gli appartiene e di vivere in pace. Le sue radici religiose e culturali sono millenarie: la Mesopotamia è culla di civiltà; è da lì che Dio ha chiamato Abramo per iniziare la storia della salvezza. In settembre poi mi sono recato a Budapest per la conclusione del Congresso Eucaristico Internazionale; e quindi in Slovacchia. È stata un’opportunità di incontro con i fedeli cattolici e di altre confessioni cristiane, come pure di dialogo con gli ebrei. Parimenti, il viaggio a Cipro e in Grecia, di cui è vivo in me il ricordo, mi ha consentito di approfondire i legami con i fratelli ortodossi e di sperimentare la fraternità tra le varie confessioni cristiane.

Una parte toccante di questo viaggio ha avuto luogo nell’isola di Lesbo, dove ho potuto constatare la generosità di quanti prestano la propria opera per fornire accoglienza e aiuto ai migranti, ma soprattutto ho visto i volti dei tanti bambini e adulti ospiti dei centri di accoglienza. Nei loro occhi c’è la fatica del viaggio, la paura di un futuro incerto, il dolore per i propri cari rimasti indietro e la nostalgia della patria che sono stati costretti ad abbandonare. Davanti a questi volti non possiamo rimanere indifferenti e non ci si può trincerare dietro muri e fili spinati con il pretesto difendere la sicurezza o uno stile di vita.
Ringrazio perciò quanti, individui e governi, si adoperano per garantire accoglienza e protezione ai migranti, facendosi carico anche della loro promozione umana e della loro integrazione nei Paesi che li hanno accolti. Sono consapevole delle difficoltà che alcuni Stati incontrano di fronte a flussi ingenti di persone. A nessuno può essere chiesto quanto è impossibilitato a fare, ma vi è una netta differenza fra accogliere, seppure limitatamente, e respingere totalmente. Occorre vincere l’indifferenza e rigettare il pensiero che i migranti siano un problema di altri. L’esito di tale approccio lo si vede nella disumanizzazione stessa dei migranti concentrati in hotspot, dove finiscono per essere facile preda della criminalità e dei trafficanti di esseri umani, o per tentare disperati tentativi di fuga che a volte si concludono con la morte. Purtroppo, occorre anche rilevare che i migranti stessi sono spesso trasformati in arma di ricatto politico, in una sorta di “merce di contrattazione” che priva le persone della dignità.

In questa sede, desidero rinnovare la mia gratitudine alle Autorità italiane, grazie alle quali alcune persone sono potute venire con me a Roma da Cipro e dalla Grecia. Si è trattato di un gesto semplice ma significativo. Al popolo italiano, che ha sofferto molto all’inizio della pandemia, ma che ha anche mostrato segni incoraggianti di ripresa, rivolgo il mio augurio, perché mantenga sempre quello spirito di apertura generosa e solidale che lo contraddistingue.

In pari tempo, reputo di fondamentale importanza che l’Unione Europea trovi la sua coesione interna nella gestione delle migrazioni, come l’ha saputa trovare per far fronte alle conseguenze della pandemia. Occorre, infatti, dare vita a un sistema coerente e comprensivo di gestione delle politiche migratorie e di asilo, in modo che siano condivise le responsabilità nel ricevere i migranti, rivedere le domande di asilo, ridistribuire e integrare quanti possono essere accolti. La capacità di negoziare e trovare soluzione condivise è uno dei punti di forza dell’Unione Europea e costituisce un valido modello per affrontare in prospettiva le sfide globali che ci attendono. Tuttavia, le migrazioni non riguardano solo l’Europa, anche se essa è particolarmente interessata da flussi provenienti sia dall’Africa sia dall’Asia. In questi anni abbiamo assistito, tra l’altro, all’esodo dei profughi siriani, a cui si sono aggiunti nei mesi scorsi quanti sono fuggiti dall’Afghanistan. Non dobbiamo neppure dimenticare gli esodi massicci che interessano il continente americano e che premono sul confine fra Messico e Stati Uniti d’America. Molti di quei migranti sono haitiani in fuga dalle tragedie che hanno colpito il loro Paese in questi anni.

La questione migratoria, come anche la pandemia e il cambiamento climatico, mostrano chiaramente che nessuno si può salvare da sé, ossia che le grandi sfide del nostro tempo sono tutte globali. Desta perciò preoccupazione constatare che di fronte a una maggiore interconnessione dei problemi, vada crescendo una più ampia frammentazione delle soluzioni. Non di rado si riscontra una mancanza di volontà nel voler aprire finestre di dialogo e spiragli di fraternità, e questo finisce per alimentare ulteriori tensioni e divisioni, nonché un generale senso di incertezza e instabilità. Occorre, invece, recuperare il senso della nostra comune identità di unica famiglia umana. L’alternativa è solo un crescente isolamento, segnato da preclusioni e chiusure reciproche che di fatto mettono ulteriormente in pericolo il multilateralismo, ovvero quello stile diplomatico che ha caratterizzato i rapporti internazionali dalla fine della seconda guerra mondiale.

La diplomazia multilaterale attraversa da tempo una crisi di fiducia, dovuta a una ridotta credibilità dei sistemi sociali, governativi e intergovernativi. Importanti risoluzioni, dichiarazioni e decisioni sono spesso prese senza un vero negoziato nel quale tutti i Paesi abbiano voce in capitolo. Tale squilibrio, divenuto oggi drammaticamente evidente, genera disaffezione verso gli organismi internazionali da parte di molti Stati e indebolisce nel suo complesso il sistema multilaterale, rendendolo sempre meno efficace nell’affrontare le sfide globali. Il deficit di efficacia di molte organizzazioni internazionali è anche dovuto alla diversa visione, tra i vari membri, degli scopi che esse si dovrebbero prefiggere. Non di rado il baricentro d’interesse si è spostato su tematiche per loro natura divisive e non strettamente attinenti allo scopo dell’organizzazione, con l’esito di agende sempre più dettate da un pensiero che rinnega i fondamenti naturali dell’umanità e le radici culturali che costituiscono l’identità di molti popoli. Come ho avuto modo di affermare in altre occasioni, ritengo che si tratti di una forma di colonizzazione ideologica, che non lascia spazio alla libertà di espressione e che oggi assume sempre più la forma di quella cancellazione di culture, che invade tanti ambiti e istituzioni pubbliche. In nome della protezione delle diversità, si finisce per cancellare il senso di ogni identità, con il rischio di far tacere le posizioni che difendono un’idea rispettosa ed equilibrata delle varie sensibilità. Si va elaborando un pensiero unico costretto a rinnegare la storia, o peggio ancora a riscriverla in base a categorie contemporanee, mentre ogni situazione storica va interpretata secondo l’ermeneutica dell’epoca. La diplomazia multilaterale è chiamata perciò ad essere veramente inclusiva, non cancellando ma valorizzando le diversità e le sensibilità storiche che contraddistinguono i vari popoli. In tal modo essa riacquisterà credibilità ed efficacia per affrontare le prossime sfide, che richiedono all’umanità di ritrovarsi insieme come una grande famiglia, la quale, pur partendo da punti di vista differenti, dev’essere in grado di trovare soluzioni comuni per il bene di tutti. Ciò esige fiducia reciproca e disponibilità a dialogare, ovvero ad «ascoltarsi, confrontarsi, accordarsi e camminare insieme». Peraltro, «il dialogo è la via più adatta per arrivare a riconoscere ciò che dev’essere sempre affermato e rispettato, e che va oltre il consenso occasionale». Non bisogna mai dimenticare che «ci sono alcuni valori permanenti». Non sempre è facile riconoscerli, ma accettarli «conferisce solidità e stabilità a un’etica sociale. Anche quando li abbiamo riconosciuti e assunti grazie al dialogo e al consenso, vediamo che tali valori di base vanno al di là di ogni consenso».

Desidero richiamare specialmente il diritto alla vita, dal concepimento sino alla fine naturale, e il diritto alla libertà religiosa. In questa prospettiva, negli ultimi anni è cresciuta sempre più la consapevolezza collettiva in merito all’urgenza di affrontare la cura della nostra casa comune, che sta soffrendo a causa di un continuo e indiscriminato sfruttamento delle risorse. Al riguardo, penso specialmente alle Filippine, colpite nelle scorse settimane da un devastante tifone, come pure ad altre nazioni del Pacifico, vulnerabili dagli effetti negativi del cambiamento climatico, che mettono a rischio la vita degli abitanti, la maggior parte dei quali dipende da agricoltura, pesca e risorse naturali.
Proprio tale constatazione deve spingere la comunità internazionale nella sua globalità a trovare soluzioni comuni e a metterle in pratica. Nessuno può esimersi da tale sforzo, poiché siamo tutti interessati e coinvolti in egual misura. Nella recente COP26 a Glasgow sono stati compiuti alcuni passi che vanno nella giusta direzione, anche se piuttosto deboli rispetto alla consistenza del problema da affrontare. La strada per il conseguimento degli obiettivi dell’Accordo di Parigi è complessa e sembra essere ancora lunga, mentre il tempo a disposizione è sempre meno. Vi è ancora molto da fare e dunque il 2022 sarà un altro anno fondamentale per verificare quanto e come ciò che si è deciso a Glasgow possa e debba essere ulteriormente rafforzato, in vista della COP27, prevista in Egitto nel novembre prossimo.

Eccellenze, Signore e Signori! Dialogo e fraternità sono i due fuochi essenziali per superare le crisi del momento presente. Tuttavia, «nonostante i molteplici sforzi mirati al dialogo costruttivo tra le nazioni, si amplifica l’assordante rumore di guerre e conflitti»[6], e tutta la comunità internazionale deve interrogarsi sull’urgenza di trovare soluzioni a scontri interminabili, che talvolta assumono il volto di vere e proprie guerre per procura (proxy wars). Penso anzitutto alla Siria, dove ancora non si vede un orizzonte chiaro per la rinascita del Paese. Ancora oggi il popolo siriano piange i suoi morti, la perdita di tutto, e spera in un futuro migliore. Sono necessarie riforme politiche e costituzionali, affinché il Paese rinasca, ma è necessario pure che le sanzioni applicate non colpiscano direttamente la vita quotidiana, offrendo uno spiraglio di speranza alla popolazione, sempre più stretta nella morsa della povertà. Non possiamo dimenticare neppure il conflitto in Yemen, una tragedia umana che si sta consumando da anni in silenzio, lontano dai riflettori mediatici e con una certa indifferenza della comunità internazionale, continuando a provocare numerose vittime civili, in particolare donne e bambini. Nell’anno passato, non si sono fatti passi in avanti nel processo di pace tra Israele e Palestina. Vorrei davvero vedere questi due popoli ricostruire la fiducia tra di loro e riprendere a parlarsi direttamente per arrivare a vivere in due Stati fianco a fianco, in pace e sicurezza, senza odio e risentimento, ma guariti dal perdono reciproco. Preoccupazione destano le tensioni istituzionali in Libia; come pure gli episodi di violenza ad opera del terrorismo internazionale nella regione del Sahel e i conflitti interni in Sudan, Sud Sudan ed Etiopia, dove occorre «ritrovare la via della riconciliazione e della pace attraverso un confronto sincero che metta al primo posto le esigenze della popolazione».

Le profonde disuguaglianze, le ingiustizie e la corruzione endemica, nonché le varie forme di povertà che offendono la dignità delle persone, continuano ad alimentare conflitti sociali anche nel continente americano, dove le polarizzazioni sempre più forti non aiutano a risolvere i veri e urgenti problemi dei cittadini, soprattutto dei più poveri e vulnerabili.
La fiducia reciproca e la disponibilità a un confronto sereno devono animare tutte le parti interessate per trovare soluzioni accettabili e durature in Ucraina e nel Caucaso meridionale, così come per evitare l’aprirsi di nuove crisi nei Balcani, in primo luogo in Bosnia ed Erzegovina.

Dialogo e fraternità sono quanto mai urgenti per affrontare, con saggezza ed efficacia, la crisi che colpisce ormai da quasi un anno il Myanmar, dove le strade che prima erano luogo di incontro sono ora teatro di scontri, che non risparmiano nemmeno i luoghi di preghiera. Naturalmente, tutti i conflitti sono agevolati dall’abbondanza di armi a disposizione e dalla mancanza di scrupoli di quanti si adoperano a diffonderle. A volte ci si illude che gli armamenti servano solo a svolgere un ruolo dissuasivo contro possibili aggressori. La storia, e purtroppo anche la cronaca, ci insegnano che non è così. Chi possiede armi, prima o poi finisce per utilizzarle, poiché, come diceva san Paolo VI, «non si può amare con armi offensive in pugno». Inoltre, «quando ci consegniamo alla logica delle armi e ci allontaniamo dall’esercizio del dialogo, ci dimentichiamo tragicamente che le armi, ancor prima di causare vittime e distruzione, hanno la capacità di generare cattivi sogni».

Sono preoccupazioni rese ancor più concrete oggi per la disponibilità e l’utilizzo di armamenti autonomi, che possono avere conseguenze terribili e imprevedibili, mentre dovrebbero essere soggette alla responsabilità della comunità internazionale. Tra le armi che l’umanità ha prodotto, destano speciale preoccupazione quelle nucleari. A fine dicembre scorso è stata ulteriormente posticipata, a causa della pandemia, la X Conferenza d’Esame del Trattato sulla Non-Proliferazione Nucleare, che era prevista a New York in questi giorni. Un mondo libero da armi nucleari è possibile e necessario. Auspico, pertanto, che la Comunità internazionale colga l’opportunità di quella Conferenza per compiere un passo significativo in tale direzione.

La Santa Sede rimane ferma nel sostenere che le armi nucleari sono strumenti inadeguati e inappropriati a rispondere alle minacce contro la sicurezza nel 21° secolo e che il loro possesso è immorale. La loro fabbricazione distoglie risorse alle prospettive di uno sviluppo umano integrale e il loro utilizzo, oltre a produrre conseguenze umanitarie e ambientali catastrofiche, minaccia l’esistenza stessa dell’umanità. La Santa Sede ritiene parimenti importante che la ripresa a Vienna dei negoziati circa l’Accordo sul nucleare con l’Iran (Joint Comprehensive Plan of Action) possa conseguire esiti positivi per garantire un mondo più sicuro e fraterno.

Cari Ambasciatori! Nel messaggio per la Giornata Mondiale della Pace celebratasi il 1° gennaio scorso, ho cercato di porre in evidenza gli elementi che ritengo essenziali per favorire una cultura del dialogo e della fraternità. Un posto speciale è occupato dall’educazione, attraverso la quale si formano le nuove generazioni, che sono la speranza e l’avvenire del mondo. Essa è il vettore primario dello sviluppo umano integrale, poiché rende la persona libera e responsabile. Il processo educativo è lento e laborioso, talvolta può indurre allo scoraggiamento, ma mai vi si può rinunciare. Esso è espressione eminente del dialogo, perché non vi è vera educazione che non sia per sua struttura dialogica. L’educazione genera poi cultura e crea ponti d’incontro tra i popoli. La Santa Sede ha inteso sottolinearne il valore anche mediante la partecipazione all’Expo Dubai 2021, negli Emirati Arabi Uniti, con l’allestimento di un Padiglione ispirato al tema dell’Esposizione: “Collegare le menti, creare il futuro”.

La Chiesa Cattolica ha sempre riconosciuto e valorizzato il ruolo dell’educazione per la crescita spirituale, morale e sociale delle giovani generazioni. È perciò ancor più per me motivo di dolore constatare come in diversi luoghi educativi – parrocchie e scuole – si siano consumati abusi sui minori, con gravi conseguenze psicologiche e spirituali sulle persone che li hanno subiti. Si tratta di crimini, sui quali vi deve essere la ferma volontà di fare chiarezza, vagliando i singoli casi, per accertare le responsabilità, rendere giustizia alle vittime e impedire che simili atrocità si ripetano in futuro.
Nonostante la gravità di tali atti, nessuna società può mai abdicare alla responsabilità di educare. Duole constatare, invece, come spesso, nei bilanci statali, poche risorse vengano destinate all’educazione. Essa viene vista prevalentemente come un costo, mentre si tratta del miglior investimento possibile.

La pandemia ha impedito a molti giovani di accedere alle istituzioni educative, con detrimento del loro processo di crescita personale e sociale. Molti, mediante i moderni strumenti tecnologici, hanno trovato rifugio in realtà virtuali, che creano legami psicologici ed emotivi molto forti, con la conseguenza di estraniare dagli altri e dalla realtà circostante e di modificare radicalmente le relazioni sociali. Con ciò non intendo certo negare l’utilità della tecnologia e dei suoi prodotti, che consentono di connettersi sempre più facilmente e rapidamente, ma richiamo l’urgenza di vigilare affinché tali strumenti non sostituiscano i veri rapporti umani, a livello interpersonale, familiare, sociale e internazionale. Se fin da piccoli si impara a isolarsi, più difficile sarà in futuro costruire ponti di fraternità e di pace. In un universo dove esiste solo l’“io”, difficilmente può esserci spazio per un “noi”. Il secondo elemento che desidero brevemente richiamare è il lavoro, «fattore indispensabile per costruire e preservare la pace. Esso è espressione di sé e dei propri doni, ma anche impegno, fatica, collaborazione con altri, perché si lavora sempre con o per qualcuno. In questa prospettiva marcatamente sociale, il lavoro è il luogo dove impariamo a dare il nostro contributo per un mondo più vivibile e bello».

Abbiamo dovuto constatare come la pandemia abbia messo a dura prova l’economia mondiale, con gravi ricadute sulle famiglie e sui lavoratori, che vivono situazioni di disagio psicologico, prima ancora che difficoltà economiche. Essa ha posto ancor più in evidenza le disuguaglianze persistenti in diversi ambiti socio-economici. Si pensi all’accesso all’acqua pulita, al cibo, all’istruzione, alle cure mediche. Il numero delle persone annoverate nella categoria della povertà estrema è in sensibile aumento. Per di più, la crisi sanitaria ha indotto molti lavoratori a cambiare tipo di mansioni, e talvolta li ha obbligati a entrare nell’ambito dell’economia sommersa, privandoli così dei sistemi di protezione sociale previsti in molti Paesi. In questo quadro, la consapevolezza del valore del lavoro acquista un’importanza ulteriore poiché non esiste sviluppo economico senza il lavoro, né si può pensare che le moderne tecnologie possano rimpiazzare il valore aggiunto procurato dal lavoro umano. Esso è poi occasione di scoperta della propria dignità, di incontro e di crescita umana, via privilegiata attraverso la quale ciascuno partecipa attivamente al bene comune e dà un contributo concreto all’edificazione della pace. Anche in quest’ambito è perciò necessaria maggiore cooperazione tra tutti gli attori a livello locale, nazionale, regionale e globale, specialmente nel prossimo periodo, con le sfide poste dall’auspicata riconversione ecologica. Gli anni a venire saranno un tempo di opportunità per sviluppare nuovi servizi e imprese, adattare quelli già esistenti, aumentare l’accesso al lavoro dignitoso e adoperarsi per il rispetto dei diritti umani e di livelli adeguati di retribuzione e protezione sociale.

Eccellenze, Signore e Signori! Il profeta Geremia ricorda che Dio ha per noi «progetti di pace e non di sventura, per conceder[ci] un futuro pieno di speranza» (29,11). Non dobbiamo perciò temere di fare spazio alla pace nella nostra vita, coltivando il dialogo e la fraternità tra di noi. La pace è un bene “contagioso”, che si propaga dal cuore di quanti la desiderano e ambiscono a viverla, raggiungendo il mondo intero. A ciascuno di voi, ai vostri cari e ai vostri popoli rinnovo la mia benedizione e l’augurio più sentito di un anno di serenità e di pace. Grazie!”

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