Una rosa d’oro. E’ questo l’omaggio che Papa Francesco ha deposto ai piedi del quadro della Vergine che si trova all’interno del Santuario Nazionale di “Ta’ Pinu” dove si è recato per l’incontro di preghiera, al quale partecipano circa 3.000 fedeli. Dopo aver deposto la rosa d’oro, il Pontefice ha recitato tre Ave Maria, poi ha raggiunto l’altare centrale. Lungo il percorso ha salutato e benedetto gli ammalati presenti all’interno del Santuario.
Il testo integrale dell’omelia pronunciata da Papa Francesco al Santuario di “Ta’ Pinu”
“Presso la croce di Gesù ci sono Maria e Giovanni. La Madre che ha dato alla luce il Figlio di Dio è addolorata per la sua morte mentre le tenebre avvolgono il mondo; il discepolo amato, che aveva lasciato tutto per seguirlo, ora è fermo ai piedi del Maestro crocifisso. Tutto sembra perduto, tutto sembra finito per sempre. E mentre prende su di sé le piaghe dell’umanità, Gesù prega: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27,46; Mc 15,34). Questa è anche la nostra preghiera nei momenti della vita segnati dalla sofferenza; è la preghiera che ogni giorno sale a Dio dal vostro cuore, Sandi e Domenico: grazie per la perseveranza del vostro amore e per la vostra testimonianza di fede!
Eppure, l’ora di Gesù – che nel Vangelo di Giovanni è l’ora della morte sulla croce – non rappresenta la conclusione della storia, ma segna l’inizio di una vita nuova. Presso la croce, infatti, contempliamo l’amore misericordioso di Cristo, che spalanca le braccia verso di noi e, attraverso la sua morte, ci apre alla gioia della vita eterna. Dall’ora della fine si dischiude una vita che comincia; da quell’ora della morte inizia un’altra ora piena di vita: è il tempo della Chiesa che nasce. Da quella cellula originaria il Signore radunerà un popolo, che continuerà ad attraversare le strade impervie della storia, portando nel cuore la consolazione dello Spirito, con la quale asciugare le lacrime dell’umanità.
Fratelli e sorelle, da questo Santuario di Ta’ Pinu possiamo meditare insieme sul nuovo inizio che sgorga dall’ora di Gesù. Anche in questo luogo, prima dello splendido edificio che vediamo oggi, c’era solo una piccola cappella in stato di abbandono. Ne era stata disposta la demolizione: sembrava la fine. Ma una serie di eventi cambiarono il corso delle cose, come se il Signore volesse dire a questa popolazione: «Nessuno ti chiamerà più Abbandonata, né la tua terra sarà più detta Devastata, ma sarai chiamata Mia Gioia e la tua terra Sposata» (Is 62,4). Quella chiesetta è diventata il Santuario nazionale, meta di pellegrini e sorgente di vita nuova. Ce lo hai ricordato tu, Jennifer: qui molti affidano alla Madonna le loro sofferenze e le loro gioie, e tutti si sentono accolti. Qui venne pellegrino anche San Giovanni Paolo II, del quale oggi ricorre l’anniversario della morte. Un posto che sembrava perduto, ora rigenera fede e speranza nel Popolo di Dio. Alla luce di questo, proviamo a cogliere anche per noi l’invito dell’ora di Gesù, di quell’ora della salvezza. Ci dice che, per rinnovare la nostra fede e la missione della comunità, siamo chiamati a ritornare a quell’inizio, alla Chiesa nascente che vediamo presso la croce in Maria e Giovanni. Ma che cosa significa ritornare a quell’inizio? Che cosa significa tornare alle origini?
Anzitutto, si tratta di riscoprire l’essenziale della fede. Tornare alla Chiesa delle origini non significa guardare all’indietro per copiare il modello ecclesiale della prima comunità cristiana. Non possiamo “saltare la storia”, come se il Signore non avesse parlato e operato grandi cose anche nella vita della Chiesa dei secoli successivi. Non significa nemmeno essere troppo idealisti, immaginando che in quella comunità non ci fossero difficoltà; al contrario, leggiamo che i discepoli discutono e arrivano persino a litigare tra di loro, e che non sempre comprendono gli insegnamenti del Signore. Piuttosto, tornare alle origini significa recuperare lo spirito della prima comunità cristiana, cioè ritornare al cuore e riscoprire il centro della fede: la relazione con Gesù e l’annuncio del suo Vangelo al mondo intero. Questo è l’essenziale!
Vediamo infatti che, dopo l’ora della morte di Gesù, i primi discepoli, come Maria Maddalena e Giovanni, avendo visto la tomba vuota, senza perdere tempo, con il cuore trepidante, corrono per andare ad annunciare la buona notizia della Risurrezione. Il pianto di dolore presso la croce si trasforma nella gioia dell’annuncio. E penso anche agli Apostoli, di cui è scritto: «Ogni giorno, nel tempio e nelle case, non cessavano di insegnare e di annunciare che Gesù è il Cristo» (At 5,42). La principale preoccupazione dei discepoli di Gesù non era il prestigio della comunità e dei suoi ministri, l’influenza sociale, la ricercatezza del culto. No. L’inquietudine che li muoveva era l’annuncio e la testimonianza del Vangelo di Cristo (cfr Rm 1,1).
Fratelli e sorelle, la Chiesa maltese vanta una storia preziosa da cui attingere tante ricchezze spirituali e pastorali. Tuttavia, la vita della Chiesa – ricordiamocelo sempre – non è mai solo “una storia passata da ricordare”, ma un “grande futuro da costruire”, docile ai progetti di Dio. Non può bastarci una fede fatta di usanze tramandate, di solenni celebrazioni, belle occasioni popolari, momenti forti ed emozionanti; abbiamo bisogno di una fede che si fonda e si rinnova nell’incontro personale con Cristo, nell’ascolto quotidiano della sua Parola, nella partecipazione attiva alla vita della Chiesa, nell’anima della pietà popolare.
La crisi della fede, l’apatia della pratica credente soprattutto nel dopo-pandemia e l’indifferenza di tanti giovani rispetto alla presenza di Dio non sono questioni che dobbiamo “addolcire”, pensando che tutto sommato un certo spirito religioso resista ancora. A volte, infatti, l’impalcatura può essere religiosa, ma dietro a quel vestito la fede invecchia. L’elegante guardaroba degli abiti religiosi, infatti, non sempre corrisponde a una fede vivace animata dal dinamismo dell’evangelizzazione. Occorre vigilare perché le pratiche religiose non si riducano alla ripetizione di un repertorio del passato, ma esprimano una fede viva, aperta, che diffonda la gioia del Vangelo.
So che avete iniziato, attraverso il Sinodo, un processo di rinnovamento, e vi ringrazio per questo cammino. Fratelli, sorelle, questa è l’ora in cui tornare a quell’inizio, sotto la croce, guardando alla prima comunità cristiana. Per essere una Chiesa a cui stanno a cuore l’amicizia con Gesù e l’annuncio del suo Vangelo, non la ricerca di spazi e attenzioni; una Chiesa che ha al centro la testimonianza e non qualche usanza religiosa; una Chiesa che desidera andare incontro a tutti con la lampada accesa del Vangelo e non essere un circolo chiuso. Non abbiate paura di intraprendere, come già fate, percorsi nuovi, magari anche rischiosi, di evangelizzazione e di annuncio, che toccano la vita.
Guardiamo ancora alle origini, a Maria e Giovanni sotto la croce. Alle sorgenti della Chiesa c’è il loro reciproco gesto di affidamento. Il Signore, infatti, affida ciascuno alle cure dell’altro: Giovanni a Maria e Maria a Giovanni, così che «da quell’ora il discepolo l’accolse con sé» (Gv 19,27). Ritornare all’inizio significa anche sviluppare l’arte dell’accoglienza. Tra le ultime parole di Gesù dalla croce, quelle rivolte alla Madre e a Giovanni esortano a fare dell’accoglienza lo stile perenne del discepolato. Non si trattò, infatti, di un semplice gesto di pietà, per cui Gesù affidò la mamma a Giovanni perché non rimanesse da sola dopo la sua morte, ma di un’indicazione concreta su come vivere il comandamento sommo, quello dell’amore.
Il culto a Dio passa per la vicinanza al fratello. Quanto è importante nella Chiesa l’amore tra i fratelli e l’accoglienza del prossimo! Il Signore ce lo ricorda nell’ora della croce, nella reciproca accoglienza di Maria e Giovanni, esortando la comunità cristiana di ogni tempo a non smarrire questa priorità. «Ecco tuo figlio», «ecco tua madre» (vv. 26.27); è come dire: siete salvati dallo stesso sangue, siete un’unica famiglia, dunque accoglietevi a vicenda, amatevi gli uni gli altri, curate le ferite gli uni degli altri. Senza sospetti, divisioni, dicerie, chiacchiere e diffidenze. Fate “sinodo”, cioè “camminate insieme”. Perché Dio è presente dove regna l’amore!
Carissimi, l’accoglienza reciproca, non per pura formalità ma in nome di Cristo, è una sfida permanente. Lo è anzitutto per le nostre relazioni ecclesiali, perché la nostra missione porta frutto se lavoriamo nell’amicizia e nella comunione fraterna. Siete due belle comunità, Malta e Gozo: proprio come due erano Maria e Giovanni! Le parole di Gesù sulla croce siano allora la vostra stella polare, per accogliervi a vicenda, creare familiarità, lavorare in comunione! Avanti, sempre insieme!
Ma l’accoglienza è anche la cartina di tornasole per verificare quanto effettivamente la Chiesa è permeata dallo spirito del Vangelo. Maria e Giovanni si accolgono non nel caldo rifugio del cenacolo, ma presso la croce, in quel luogo oscuro in cui si veniva condannati e crocifissi come malfattori. E anche noi, non possiamo accoglierci solo tra di noi, all’ombra delle nostre belle Chiese, mentre fuori tanti fratelli e sorelle soffrono e sono crocifissi dal dolore, dalla miseria, dalla povertà e dalla violenza. Vi trovate in una posizione geografica cruciale, che si affaccia sul Mediterraneo come polo di attrazione e approdo di salvezza per tante persone sballottate dalle tempeste della vita che, per motivi diversi, arrivano sulle vostre sponde. Nel volto di questi poveri è Cristo stesso che si presenta a voi. Questa è stata l’esperienza dell’Apostolo Paolo che, dopo un terribile naufragio, fu calorosamente accolto dai vostri antenati. Gli Atti degli Apostoli affermano: «Gli abitanti ci accolsero tutti attorno a un fuoco, che avevano acceso perché era sopraggiunta la pioggia e faceva freddo» (At 28,2).
Ecco il Vangelo che siamo chiamati a vivere: accogliere, essere esperti di umanità, accendere fuochi di tenerezza quando il freddo della vita incombe su coloro che soffrono. E anche in questo caso da un’esperienza drammatica nacque qualcosa di importante, perché Paolo annunciò e diffuse il Vangelo e, in seguito, tanti annunciatori, predicatori, sacerdoti e missionari seguirono le sue orme. Vorrei dire un grazie speciale a loro: ai numerosi missionari maltesi che diffondono nel mondo intero la gioia del Vangelo, ai tanti sacerdoti, alle religiose e ai religiosi e a tutti voi. Come ha detto il vostro vescovo, Mons. Teuma, siete un’isola piccola, ma dal cuore grande. Siete un tesoro nella Chiesa e per la Chiesa. Per custodirlo, bisogna tornare all’essenza del cristianesimo: all’amore di Dio, motore della nostra gioia, che ci fa uscire e percorrere le strade del mondo; e all’accoglienza del prossimo, che è la nostra testimonianza più semplice e bella nel mondo.
Il Signore vi accompagni su questa via e la Vergine Santa vi guidi. Lei, che chiese di pregare tre “Ave Maria” per ricordarci del suo cuore materno, riaccenda in noi suoi figli il fuoco della missione e il desiderio di prenderci cura gli uni degli altri. La Madonna vi benedica!”.