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Padre Viscardi sull’arrivo del Papa: “In Mongolia il clima è di gioia”

L'arrivo in Mongolia del Santo Padre è vissuto con tanta meraviglia ed emozione

In occasione del viaggio di Papa Francesco in Mongolia, parla Padre Viscardi, missionario della Consolata, di origini bergamasche, da 19 anni in Mongolia

Le parole di Padre Viscardi

“Si respira un clima di gioia e di meraviglia: il papa che viene in Mongolia. Viene a visitare la più piccola comunità cattolica che esiste al mondo. Lui, che è il pastore di una chiesa universale, ha scelto di venire a visitare noi, in questa Mongolia, al centro dell’Asia, in questa piccola comunità che è formata da 1.500 battezzati. È un gesto bellissimo”. È padre Ernesto Viscardi, missionario della Consolata, di origini bergamasche, da 19 anni in Mongolia a commentare la Sir le prime parole di Papa Francesco pronunciate domenica 27 agosto all’Angelus, alla vigilia del suo viaggio in Mongolia dal 31 agosto al 4 settembre. “La seconda emozione – prosegue il missionario italiano – è il fatto che il Papa, qui, ci porterà tutta la Chiesa. Dirà a noi delle parole precise di incoraggiamento ma pronuncerà anche delle parole per tutto il mondo, sui temi della pace, del dialogo, della povertà, della giustizia. In qualche maniera, la Mongolia diventerà per qualche giorno un po’ al centro dell’attenzione del mondo e delle comunità cattoliche sparse nel mondo. Quindi grande emozione ma anche tante cose da fare e preparare”.

Domenica all’Angelus il Papa vi ha descritti come “una Chiesa piccola nei numeri ma vivace nella fede e nella carità”. Chi siete?

“La gente, che viene nelle nostre comunità e che ha ricevuto il battesimo, è semplice. Ma sono anche persone che hanno fatto una scelta molto importante, quella di diventare cristiane. Non è una cosa leggera, soprattutto in un contesto in cui i cattolici sono una minoranza. Magari ti ritrovi ad essere l’unico cattolico in famiglia”.

Il Papa ha sottolineato anche una vivacità nella carità. Perché?

“Quando i primi tre missionari sono arrivati qui in Mongolia nel 1992, non c’era niente. Con una battuta, si potrebbe dire che abbiamo iniziato la missione da “ground zero”. È stato quindi naturale partire dai più poveri. Abbiamo così cominciato dai ragazzi di strada, andando incontro a quel fenomeno dei “ragazzi dei tombini” diffuso anche in altri Paesi. Ragazzi che trovano rifugio, per così dire, di pochi decimetri cubici, nella rete che si snoda nelle viscere della città e vivono tra freddo, fame, mancanza d’acqua, sporcizia, paura della violenza. I missionari li hanno presi e li hanno accolti nei loro appartamenti, perché allora avevano solo quello. Poi sono arrivate altre Congregazioni: le suore coreane, le suore della Carità di Madre Teresa, e ancora i salesiani… Piano piano, la presenza dei missionari ha cominciato ad allargarsi. Parallelamente a queste opere sociali, si è sviluppato anche tutto l’aspetto religioso con l’arrivo anche dei primi mongoli nelle comunità. La piccola Chiesa si è allargata con le scuole di formazione e catechesi e con le prime comunità e parrocchie. Dopo 30 anni, da quel “ground zero” siamo arrivati a 1.500 battezzati”.

Che popolo incontrerà Papa Francesco?

“Un popolo che ha una lunga storia alle spalle di cui la Mongolia è molto fiera, con l’epopea di Gengis Khan e il suo grande Regno che andava dalla Corea fino alla Polonia. È un popolo che per tradizione è buddista e che ha quindi assorbito anche nella sua cultura gli elementi del buddismo. Sono questi due tratti che hanno rifondato questo Paese dopo 70 anni di socialismo duro. Incontrerà però anche un popolo che in questi ultimi 20 anni sta vivendo un cambiamento, sociale e culturale, abbastanza repentino, soprattutto a seguito dell’influenza dei mass media che anche qui, come nel resto del mondo, sono molto diffusi non solo in città ma anche in campagna. Non è raro incontrare il pastore mongolo, in sella al suo cavallo o alla motocicletta prodotta in Cina, che dalla sua veste tradizionale tira fuori l’ultimo modello di telefonino. Questo cambiamento è stato generato soprattutto in seguito alla scoperta di grossi giacimenti minerari nel deserto del Gobi che hanno accelerato un afflusso di capitali stranieri e ad una economia che ha poi avuto inevitabilmente una conseguenza sugli stili di vita”.

Un Paese, due anime?

“Un grosso problema culturale di questo Paese che è quello di mettere insieme tutta la bellezza della tradizione mongola con tutti gli elementi della modernità. Penso che il Papa incontrerà un popolo che si trova a metà di questo passaggio, con la sfida, da una parte, di conservare tutta la bellezza del suo passato e dall’altra di gestire i cambiamenti che necessariamente avvengono per influenza della modernità”.

Che parole vi aspettate da Papa Francesco?

“La prima parola è la sua presenza. Ma non tanto perché è il Papa ma soprattutto perché è Francesco, quindi per il suo stile, la sua capacità di interpretare, la sua visione della Chiesa ed esercitare il suo ruolo come Papa. La sua presenza è la prima parola non detta. La seconda parola che ci dirà sarà anche sicuramente una parola di incoraggiamento. Siamo pochi e saremo incoraggiati a proseguire. La terza parola sarà una parola di testimonianza. Siamo pochi come lo erano i primi cristiani nella prima Chiesa di Gerusalemme ma è importante essere quello che siamo e dare testimonianza con coraggio e senza paura di quello che siamo. L’altra parola, visto che ci troviamo Mongolia, sarà sicuramente una parola di dialogo, soprattutto all’incontro che il 3 settembre Papa Francesco avrà con i capi religiosi del buddismo e di altre religioni. Viviamo in un contesto di minoranza e ci incoraggerà a proseguire in questo cammino di dialogo”.

Fonte: Angesir

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