Le notti azzurre di Berlino

Diciotto anni fa, l'ultima Italia alla fase finale di un Mondiale. Oggi, un futuro che sgomita nel complicato passaggio generazionale

Italia Mondiali 2006
Foto © imago/Camera 4

C’eravamo abbracciati talmente forte da pensare, in quel momento, che tutto sarebbe durato in eterno. E, dopo, che non saremmo mai più stati così felici. Che le notti magiche non sarebbero tornate. Perché, in fondo, bastarono quattro anni a spazzare via tutto. Ma forse anche meno, se si considera il colossale naufragio del 2009 in Confederations Cup. Se l’Italia non si è fermata a Berlino, la sera del 9 luglio 2006, è unicamente per l’impresa continentale del 2021. Una meravigliosa parentesi in quasi un ventennio di discesa libera. Del resto, è ora di guardarsi in faccia, piuttosto che indietro. Dal trionfo di Berlino sono passati diciotto anni. Chi nacque nei giorni dei Mondiali tedeschi oggi è maggiorenne. E l’Italia al Mondiale l’ha vista giusto un paio di volte, in entrambi i casi con pessima figura annessa. Diciotto anni, praticamente una vita dall’ultima Nazionale presente alla fase a eliminazione diretta di un Campionato del mondo.

La nuova Italia

Del declino inesorabile (eccezion fatta per il già citato Europeo di tre anni fa e, se vogliamo, per la finale del 2012, praticamente persa in partenza) del calcio tricolore si è scritto e detto di tutto. Talmente tanto da non rendersi conto, forse, che allo scarso protagonismo ci abbiamo fatto l’abitudine. Se non noi, come generazioni “campioni del mondo”, di sicuro quelle più giovani, che nel 2006 non c’erano e che il trionfo del 2021 lo hanno vissuto masticando un calcio dal sapore decisamente diverso. Quello di una gomma da masticare ormai vecchia, quasi più un fastidio che un sollievo per il palato. Un gusto come tanti. Assunti che rischiano, a ogni passo, di cadere nel luogo comune. Eppure, è innegabile che l’approccio al pallone si sia modificato di pari passo alla crescita generazionale di chi è venuto dopo l’ultimo Mondiale vinto dall’Italia. Ragazzi maggiorenni per i quali il pallone è un passatempo esterno tanto quanto lo è (o forse addirittura meno) nei videogiochi interconnessi, iper-realistici, radicalmente diversi da quelli che offrivano le consolle di qualche lustro fa. Risultato: quasi più tendenze manageriali che reale voglia di uscire e prendere a calci una sfera di cuoio.

Una differenza fondamentale

Il messaggio che il passaggio generazionale ci ha consegnato è stato abbastanza chiaro: la passione resta alla base di uno sport, anche se laccato d’oro come il calcio. Quella passione che, anche senza prodigi in campo, qualcuno vecchia scuola forse è ancora in grado di tirare fuori dai calciatori e che, non troppi anni fa, ha permesso alla Nazionale di guadagnarsi l’affetto della gente disputando un Europeo di cuore, più che di tecnica. È chiaro che nessuno pretende una Berlino (non quella della Svizzera, chiaro) ogni quattro anni ma, quantomeno, il recupero del significato profondo dell’esserci. E, successivamente, di esserci con la mentalità giusta. Perché tra andare e non andare al Mondiale la differenza c’è. La differenza che distingue il percepire una passione aggregante e il guardare gli altri viverla a modo loro. E, chiaramente, la differenza tra una notte magica e una di sconforto. Con l’aggravante che, in fondo, più che di sconforto si tratti di constatazione dei fatti. Un pessimo auspicio per il futuro.