Un puntino circondato da un lieve alone giallo. A cinque miliardi di chilometri di distanza da noi il Sole si vede così, nient’altro che un granello di polvere celeste, poco più grande delle altre stelle del firmamento. Basta questa immagine per raccontare Plutone, l’ultimo avamposto del nostro sistema planetario prima dello spazio profondo. Un ammasso di roccia sparato nell’universo, lontano dai nostri occhi sino al 1930 quando l’astronomo Clyde William Tombaugh lo mostrò alla scienza per la prima volta. Fino ad oggi lo abbiamo conosciuto grazie a fotogrammi sfocati, frutto delle osservazioni dei telescopi e della straordinaria missione Voyager. Sono stati necessari anni di studi, analisi calcoli per arrivare al faccia a faccia andato in scena dalle 14.49 italiane di questo 14 luglio. Una data che non ricorderà più solo lo scoppio della rivoluzione francese ma anche il giorno in cui l’uomo avrà superato un nuovo ostacolo verso la piena comprensione di quanto lo circonda. Il tutto grazie alla sonda New Horizons, una straordinaria missione Nasa iniziata nel 2006. Questo autentico prodigio dell’ingegneria è il nostro occhio su Plutone, il fratello più lontano e misterioso della Terra.
Il “bacio” è durato poco, il tempo di passare alla distanza minima da questo piccolo mondo: 12.500 chilometri dalla superficie, un’inezia per le distanze astronomiche, basti pensare che la Luna orbita da noi a 400mila chilometri. In quei minuti New Horizons ha volato a 50mila chilometri orari scattando decine di fotografie a un risoluzione di 1 pixel per 500 metri. Quanto basta per avere un quadro completo che servirà a sciogliere gran parte degli enigmi di Plutone. Molti derivano dalla sua composizione e grandezza e da alcune caratteristiche che la comunità scientifica ha preso in considerazione per escluderlo dalla lista dei pianeti del sistema solare, pochi mesi prima della partenza della sonda, declassandolo a planetoide tra le proteste di piazza di tanti suoi ammiratori. Una decisione che proprio la missione americana potrà ribaltare se le analisi daranno risultati soddisfacenti.
Un altro aspetto da studiare riguarda la struttura brillante a forma di cuore e quattro grandi macchie scure, ognuna grande quanto lo stato americano del Missouri, e poste alla stessa distanza fra loro. Queste chiazze corrono lungo l’equatore e potrebbero essere altipiani o pianure, oppure variazioni di luminosità su una superficie completamente liscia. Ma il responso su Plutone non sarà immediato, in quella fase la navicella sarà impegnata a raccogliere dati attraverso sette strumenti d’avanguardia, tra cui la camera “Long range reconnaissance imager” (Lorri), o il rivelatore di polveri “Sdc” (Student dust counter), costruito – come suggerisce il nome stesso – con il prezioso contributo degli studenti. Il primo segnale di vita di Horizons arriverà solo il giorno dopo, quando in Europa sarà notte, dopo un viaggio di 5 ore alla velocità della luce. E il suo contenuto sarà più o meno questo: “Tutto a posto, sono sopravvissuta all’incontro”. Non è una banalità, perché a quelle distanze e nelle profondità del cosmo può accadere di tutto, compresi danni irreparabili, capaci di mandare a monte anni di speranze. Sarà uno scrosciante applauso, come avvenuto anche per l’atterraggio di Curiosity su Marte nel 2012, a confermare che niente sarà andato storto. “Spero di vedere un mondo molto attivo e dinamico” ha commentato il prof. Bill McKinnon della Washington University a St Louis, membro del gruppo di studio.
Intanto Horizons ha già contribuito a raccontarci qualcosa del suo osservato speciale. La prima è che Marte non è l’unico pianeta rosso del Sistema Solare. Ma nel caso di Plutone la colorazione non dipende dal ferro arrugginito bensì, probabilmente, da molecole di idrocarburi, frutto dell’incontro tra la luce solare, i raggi cosmici e il metano dell’atmosfera plutoniana. La sonda poi ci regalerà anche le prime immagini di Caronte, principale satellite del pianeta nano, che misura poco più della metà del suo “signore”. Due maestosità ghiacciate che si mostreranno ai nostri occhi come mai prima. La missione Nasa andrà poi alla ricerca di altre lune oltre a quelle conosciute, come Stige, Idra, Cerbero e Notte. Poi passerà oltre, osservando il Sole eclissarsi per captare da laggiù i suoi raggi. E si immergerà nell’oscurità verso la Nube di Oort, culla delle comete, altra meraviglia nell’immensità del cosmo.