Questa storia parte da un assunto: ogni popolo ha diritto a uno Stato. Un assioma per chi vive dalle nostre parti ma che, nellāintersecata dinamica del Medio Oriente, assume la fisionomia di una veritĆ molto relativa. Se non vogliamo tornare alle cronache bibliche e allāEsodo verso la Terra Promessa possiamo dire che la disputa tra israeliani e palestinesi abbia un principio definito nel tempo. Con la fine della Seconda Guerra Mondiale la comunitĆ internazionale si muove per far rientrare quel che resta del popolo ebraico verso la sua regione di origine e nel 1947 lāOnu approva un piano per dividere lāarea tra Palestina e Israele stabilendo un regime speciale per Gerusalemme. Una situazione tesa sin dallāinizio e che un anno dopo porta gli autoctoni a ribellarsi contro i nuovi arrivati. Israele reprime agevolmente la rivolta e si estende oltre i confini stabiliti, invadendo la parte occidentale della CittĆ Santa e i territori dei vicini, ad esclusione della Cisgiordania e di Gaza. Il quadro si completa con la guerra dei sei giorni del 1967 che avvia la progressiva occupazione da parte di Tel Aviv delle ultime due aree rimaste ai palestinesi, in precedenza controllate da Egitto e Giordania, delle alture del Golan (strappate alla Siria nel 1981) e della penisola del Sinai (restituita al Cairo nel 1982). Dal 2005 Israele ha ritirato truppe e coloni da Gaza, stabilendo perĆ² un embargo sulla Striscia che rende particolarmente complicata la vita dei suoi abitanti.
Questo il quadro, cui va aggiunta lāaffermazione del movimento paramilitare di Hamas nei Territori che, avendo come obiettivo la distruzione dello Stato ebraico, ha comportato una continua ripresa delle ostilitĆ tra le parti in causa. Trovare una soluzione non ĆØ facile visti anche gli interessi in gioco, da una parte gli Stati Uniti (che di Israele sono il principale alleato e fornitore di armi) e dallāaltra il mondo arabo (a sostegno della Palestina e con un atteggiamento sin troppo ambiguo nei confronti di Hamas). Senza dimenticare, ed ĆØ questa forse la situazione piĆ¹ spinosa, la questione dei coloni israeliani nella West Bank. Una minoranza cui Tel Aviv vuole giustamente garantire la piĆ¹ ampia sicurezza e che, quindi, non fa altro se non rendere ancora piĆ¹ tesa la situazione. Specie da quando il governo di Netanyahu ha avviato una politica di edificazione di case ad essi destinate, una mossa che non ha fatto piacere nemmeno allāamministrazione Obama, i cui rapporti con il premier israeliano uscente sono ai minimi termini.
Nel mezzo ci sono gli accordi di Oslo, sugellati da Yasser Arafat (allora presidente dellāOrganizzazione per la liberazione della Palestina) e Yitzhak Rabin, primo Ministro di Tel Aviv, sotto gli occhi di Bill Clinton nel 1994. Il patto prevedeva la creazione di due Stati indipendenti ma non ha mai trovato attuazione anche per via dellāimprovvisa scomparsa di Rabin, ucciso da un integralista israeliano nel 1995. āArafat mi disse: āQuesta ĆØ la morte del processo di paceāā ha ricordato lāex ministro del Esteri palestinese Nabil Shaath intervenuto lo scorso mese a Roma nel corso di una conferenza organizzata dalla SocietĆ italiana per l’organizzazione internazionale (Sioi). E in effetti da allora āIsraele ha continuato a perseguire lo status quo e a perpetuare l’occupazione della Cisgiordania e di Gerusalemme estā.
Ma come se ne esce? Sinora sono state prospettate due soluzioni: āla prima prevede la creazione di uno Stato unico israelo-palestinese ā ha spiegato Shaath ā nel quale ci siano eguali diritti per tutti e non lāapartheid come in Sudafrica prima di Mandelaā. Ma si tratta di un risultato difficile da raggiungere: la popolazione araba sarebbe, infatti, nettamente superiore a quella ebraica, con il rischio che, visti i trascorsi storici, possa cercare di far prevalere la propria identitĆ . La seconda ĆØ avere due Stati indipendenti, con una netta demarcazione dei confini, lāunica in grado di garantire pace e stabilitĆ . Ma il raggiungimento di questo obiettivo appare molto lontano per due ordini di motivi; da una parte cāĆØ la resistenza di Israele, dallāaltra lāestremismo di Hamas e dei coloni, che perseguono una terza via: lāannientamento dellāavversario.
I nodi da sciogliere sono diversi, Tel Aviv teme innanzitutto che i vicini, dotati di piena sovranitĆ , possano rivelarsi ostili e allearsi con le nazioni islamiche mediorientali. In secondo luogo cāĆØ il problema della definizione dei confini della Cisgiordania. In ultimo quello legato a Gerusalemme, che entrambi i contendenti considerano la propria capitale.
La diplomazia dellāAnp si sta muovendo per sensibilizzare lāOccidente sulla condizione di una popolazione costretta a vivere dietro una cortina di ferro. In questi mesi diversi Paesi europei, a partire dalla Svezia e dal Regno Unito hanno riconosciuto la Palestina. E anche lāItalia sembra aver intrapreso questa direzione. Shaath ci spera āCi siete sempre stati vicini e potete giocare un ruolo centrale nel processo di pace. Sono ottimista per natura, bisogna trovare una soluzione che garantisca indipendenza, giustizia, libertĆ e sicurezza a tutte le parti. Per questo motivo chiedo il vostro aiutoā. Ascoltare il grido della Palestina ĆØ fondamentale, non solo per dare una speranza ai suoi cittadini, ma anche per restituire stabilitĆ allāarea, disinnescando una mina sin troppo pericolosa per il pianeta. Nel frattempo lāAnp si ĆØ mossa per chiedere alla Corte internazionale dellāAja di valutare la possibile commissione di crimini di guerra da parte di Tel Aviv a Gaza. Una mossa che ha fatto infuriare Israele. āNon capisco di cosa si preoccupino. Se le accuse fossero infondate faremo noi la figura degli stupidi ā ĆØ stata la battuta di Shaath – tutto quello che fa Israele lo fa per garantire la sua sicurezza, mentre tutto quello che fanno i palestinesi ĆØ un atto di terrorismo? Due pesi e due misure che devono avere fineā.