Siamo uno dei Paesi che ha cambiato di più al mondo il proprio sistema elettorale. Con questa siamo infatti alla quinta volta in 70 anni di Repubblica: una media di un cambio ogni 14 anni. Ma prima ancora di parlare di leggi attuali, vale la pena fare un passo indietro nella storia, accennando a un’altra normativa più volte evocata dopo l’annuncio del governo sul fatto che porrà la fiducia rispetto all’Italicum. Siamo nel 1923, e Benito Mussolini fa passare la cosiddetta la legge Acerbo, voluta per garantire al Partito Nazionale Fascista una solida maggioranza parlamentare. Il provvedimento prevedeva l’adozione di un sistema proporzionale con premio di maggioranza, all’interno di un collegio unico nazionale suddiviso in 16 circoscrizioni. Il risultato nel collegio unico era decisivo per determinare la ripartizione dei seggi: nel caso in cui la lista più votata a livello nazionale avesse superato il 25% dei voti validi, avrebbe automaticamente ottenuto i due terzi dei seggi della Camera, blindando l’azione di governo. Quella legge passò col voto di fiducia, ed ecco il perché dei richiami odierni.
Poi, dopo la guerra, nacque la Repubblica italiana. Le elezioni politiche del 1948 si tennero con il sistema di voto introdotto con il decreto legislativo luogotenenziale n. 74 del 10 marzo 1946, concepito proprio per gestire le elezioni dell’Assemblea Costituente previste per il successivo 2 giugno. Scottati dalla deriva autoritaristica del Ventennio, i padri fondatori pensarono al Bicameralismo perfetto, dove ciascuna Camera – su base elettiva e proporzionale – controlla l’operato dell’altra. Il sistema introdotto fu recepito come normativa elettorale per la Camera dei deputati con la legge n. 6 del 20 gennaio 1948. Per quanto riguarda il Senato della Repubblica, i criteri di elezione vennero stabiliti con la legge n. 29 del 6 febbraio 1948 la quale, rispetto a quella per la Camera, conteneva alcuni piccoli correttivi in senso maggioritario, pur mantenendosi anch’essa in un quadro largamente proporzionale. Differentemente dalla Camera, la legge elettorale del Senato si articolava su base regionale.
Dunque questo sistema proporzionale con soglia di sbarramento, è stato adottato per tutte le elezioni italiane dal 1946 al 1993 (fatta eccezione per il Senato). Poi, nel 1993, entrò in vigore la legge Mattarella (o Mattarellum) che rimase operativa fino al 2005. Essa introdusse un sistema elettorale ibrido, definito come maggioritario uninominale a turno unico per i tre quarti dei seggi del Senato e i tre quarti dei seggi della Camera; ripescaggio proporzionale dei più votati fra i candidati non eletti per l’assegnazione del rimanente 25% dei seggi del Senato; proporzionale con liste bloccate e soglia di sbarramento al 4% per il rimanente 25% dei seggi della Camera.
Ma in realtà era già dal 1991 che qualcosa bolliva in pentola. Quegli anni furono definiti “dei referendum”. Il 9 giugno 1991, infatti, ci fu quello che abolì le preferenze plurime. Fu la prima spallata ad un sistema politico messo in crisi dalla caduta del Muro di Berlino, un piccolo cambiamento che produsse un effetto devastante: milioni di voti, soprattutto meridionali, furono sottratti al controllo clientelare. Poi arrivò Tangentopoli, nel 1992; il sistema dei partiti tradizionali iniziò a crollare sotto i colpi della magistratura, e così nel 1993 arrivò la seconda svolta legata ai referendum. Il 18 aprile, data simbolo della politica italiana, gli italiani decisero di cancellare il sistema di elezione del Senato, una scelta che fu interpretata come una svolta in senso maggioritario, antiproporzionale. L’esigenza finale era quella di evitare la frammentazione in partitini, aumentare la governabilità del Paese ed eliminare il voto di scambio con annesse mazzette.
Nel 2005 con la legge Calderoli nasce il Porcellum, ideato dal governo Berlusconi: è un sistema proporzionale corretto con un premio di maggioranza – attribuito su base regionale al Senato – e diverse clausole di sbarramento. La novità sostanziale è l’annullamento del voto di preferenza, cosa che in sostanza dava ai partiti (che nel frattempo si stavano trasformato in partiti dei leader, con un unico capo incontrastato e con il nome sul simbolo) il potere di scelta su chi far entrare in Parlamento e relegava gli elettori al solo voto di posizione, ideologico.
Nel 2013 la Consulta ha dichiarato l’incostituzionalità di parte della legge, in riferimento al premio di maggioranza e all’impossibilità per gli elettori di fornire una preferenza. Questa riformulazione, che è attualmente in vigore, viene definita giornalisticamente il Consultellum, e – di fatto ma non di diritto – sancisce l’illegittimità degli eletti attualmente a Camera e Senato.
E arriviamo ai nostri giorni, all’Italicum, con capolista bloccato e preferenze. Nei 100 collegi i partiti che otterranno i voti necessari eleggeranno automaticamente il loro capolista, che è bloccato e deciso quindi dal partito. A partire dal secondo eletto torneranno invece le preferenze: sarà possibile segnalare due nomi sulla scheda elettorale, con alternanza di genere.
Se al primo turno la lista più votata supera il 40%, conquista 340 seggi, ovvero un’agevole maggioranza assoluta. Se nessun partito o lista dovesse raggiungere quota 40, si andrà al secondo turno tra i partiti più votati, chi vince conquista ugualmente 340 seggi. La soglia di sbarramento è al 3% per tutti i partiti. Come clausola per evitare un ritorno troppo anticipato alle urne, l’Italicum entrerà in vigore il primo luglio 2016 e si applicherà solo alla Camera dei deputati, dal momento che, nel frattempo, il Senato dovrebbe essere riformato in senso non elettivo e depotenziato.
Sulla legge il governo ha deciso di mettere la fiducia. Anzi, tre fiducie: la conferenza dei capigruppo, riunita ieri, ha stabilito infatti che si voterà la prima sull’articolo 1 oggi pomeriggio e le altre due (sugli articoli 2 e 4) domani. Dentro al Pd sarà fuoco e fiamme: Bersani ha già dichiarato il suo no, e non sarà l’unico. Il voto finale, su cui non si può mettere la fiducia, slitterà probabilmente alla prossima settimana.