“Promuovere una cooperazione reciprocamente vantaggiosa in vari campi, stimolare gli scambi e il dialogo tra le civiltà”. Buoni propositi quelli del presidente cinese, Xi Jinping, che celebra il cinquantesimo anniversario delle relazioni diplomatiche con l’Italia rinnovando il suo appello ad aprire le porte dell’Europa a un rapporto più diretto con Pechino e la sua storia. Un colloquio telefonico con il Presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella, per rinsaldare l’intesa stipulata nel ’70. Lo sforzo diplomatico fu sostenuto dall’allora ministro degli Esteri, Pietro Nenni, che propose il riconoscimento della Repubblica popolare cinese.
Italia e Cina: il punto
Un’intesa economica, di partnership a livello commerciale ma anche l’istituzione di un asse più diretto fra Roma e Pechino. Scelta che costò la cessazione delle relazioni con la Repubblica di Cina (Taiwan) ma che rappresentò un nuovo tentativo dell’Occidente di tessere relazioni con un’economia allora emergente e dalle potenzialità pressoché infinite. Di acqua sotto i ponti ne è passata, tante le variabili subentrate non solo a livello commerciale, ma anche geopolitico. Tanto che, a cinquant’anni dalla firma, è lecito chiedersi a che punto sia quell’ambizioso progetto. “Tante vicende hanno pesato – ha spiegato a Interris.it Francesca Ghiretti, ricercatrice Iai nell’ambito degli studi sull’Asia – ma proposte e iniziative non sono mancate”.
Dott.ssa Ghiretti, nei giorni scorsi il presidente cinese Xi Jinping ha fatto riferimento all’anniversario, incoraggiando l’Italia nel potenziamento dei rapporti bilaterali. Dopo cinquant’anni, a che punto è la relazione Roma-Pechino?
“Ci sono sempre cambiamenti. Nella storia delle relazioni ufficiali fra i due Paesi abbiamo visto una serie di alti e bassi, in cui spesso l’Italia prendeva iniziative coraggiose nei confronti delle relazioni con la Cina, anche rispetto a quelli che erano gli standard di altri partner europei e nord atlantici. Iniziative per migliorare i rapporti bilaterali, per essere all’avanguardia su quelli che erano i nuovi aspetti, ultimo fra i quali il memorandum del 2019. E poi, regolarmente, queste iniziative sono cadute nel nulla o quasi. Non ci sono conseguenze sostanziali. Storicamente, sia per condizioni geopolitiche che per mancanza, da parte dell’Italia, di riuscire a concretizzare questo slancio iniziale. Adesso stiamo vivendo questo. Nel 2018 e 2019 abbiamo visto lo slancio per la firma del memorandum, in cui sembrava si dovessero fare grandi cose, perlomeno apparentemente”.
Invece cosa è accaduto?
“Nel dettaglio si vedeva che il memorandum o era la fine di un percorso o una dichiarazione di intenti che, a livello di elementi pragmatici, era una po’ vuota. Ci sono stati comunque proposte da entrambe le parti. Nel 2020, sia per il cambio di condizione geopolitica, sia che di posizionamento del governo italiano, la situazione è di nuovo in quella fase in cui le relazioni sono positive ma senza elementi particolari di vicinanza. A 50 anni dalla resa ufficiale delle relazioni diplomatiche, siamo nuovamente in un momento di ‘non passo'”.
Una fase, quindi, di relazioni stabili o di stallo?
“Sì, una sorta di stallo. Sembra anche che siamo in un allineamento piuttosto europeo di quello che è il nostro posizionamento nei confronti della Cina”.
Quanto pesa la battaglia commerciale con Washington e la guerra dei dazi?
“Indubbiamente, la relazione sviluppatasi fra Stati Uniti e Cina, non solo con la guerra dei dazi ma anche con tutto quello che è avvenuto dopo, hanno influenzato i rapporti europei con Pechino. E, sia direttamente che indirettamente, le relazioni italiane con la Cina. C’è da dire che, da parte di Pechino, nel limite dell’interesse che ha nei confronti dell’Italia ci sono proposte di iniziative. E ovviamente sono due discorsi separati quello pubblico e quello privato. Per quanto riguarda eventuali accordi bilaterali con realtà private italiane ci sono iniziative. Ad alto livello la situazione è diversa. E abbiamo raggiunto una fase di sospensione”.
Con la fase di stasi dei rapporti bilaterali con l’Occidente, l’attenzione ad altri mercati, come l’Africa, può essere letta in un’ottica di strategia a livello commerciale?
“Oramai la Cina non è più un’economia emergente. E questa attenzione nei confronti di altri mercati, soprattutto quelli in via di sviluppo, l’ha sempre avuta per diversi motivi. Gli interessi nei confronti di economie avanzate come quella europea o nordamericana e le economie meno sviluppate sono ovviamente diversi. In queste ultime c’è la strategia di penetrare il mercato ma in maniera differente rispetto a come avverrebbe in un’economia avanzata. Sfruttando l’occasione di quello che è un tessuto economico che si sta sviluppando. Si tratta sostanzialmente della capacità di fare accordi più vantaggiosi, con Pechino che si trova in posizione di maggiore influenza rispetto al passato. Accordi con nazioni, africane ma non solo, che hanno materie prime importanti”.
Accordi potenzialmente vantaggiosi?
“Anche da un punto di vista di relazioni internazionali ci sono meno difficoltà, poiché si può lavorare su una narrativa del ‘siamo tutte Nazioni in via di sviluppo’, portando però l’esempio di una Cina riuscita a diventare un’economia importante. E nel momento in cui si approcciano questo tipo di Paesi, in alcuni casi ha un bagaglio storico meno ingombrante rispetto ai Paesi occidentali. Indubbiamente c’è un enorme interesse in realtà come quelle africana, mediorientale o sudamericana, anche perché ad esempio la Via della Seta puntava molto sulle connessioni euroasiatiche e africane a livello di costruzione di un’area di relazioni internazionali”.
A questo proposito, la Nuova Via della Seta è un progetto ancora potenziabile o risente della fase di rallentamento delle relazioni internazionali?
“Se la Cina volesse, le capacità per sviluppare questi progetti le avrebbe a livello finanziario. Il fatto è che si scontra con limiti locali: un conto è pianificare, un altro è entrare nelle dinamiche regionali di governance complicate. Poi si scontra con il giudizio internazionale, a seconda del periodo in cui la Cina si trova nel momento in cui decide di portare avanti il progetto. E poi subentrano le capacità di chiudere effettivamente il cerchio. Sviluppare progetti sotto l’ombrello della Nuova Via della Seta non è lo stesso che riuscire a connetterli. E abbiamo visto come, in alcuni casi, questo si sia dimostrato più complesso del previsto”.
Escludendo le variabili introdotte dal Covid-19, nell’ottica del Piano quinquennale 2021-2025 le questioni geopolitiche cinesi aperte – Taiwan e Hong Kong su tutte – potrebbero sortire effetti come l’isolamento commerciale?
“Nonostante la risposta internazionale a queste questioni sia sostanzialmente negativa, c’è un limite alla capacità di azione. Nel caso di Taiwan, la situazione è particolare perché buona parte dello sviluppo tecnologico dei dispositivi che usiamo giornalmente dipende da questo Paese. E quindi, anche per gli Stati Uniti, Taiwan è una questione piuttosto delicata. Da qui a dire che, se la Cina la attaccasse, gli Usa interverrebbero militarmente si andrebbe su un’ipotesi troppo azzardata. Però, indubbiamente, come reputazione questo tipo di azioni vengono pagate a livello internazionale. Ed è il motivo per cui nel 14esimo Piano quinquennale si sia introdotta questa idea della doppia circolazione”.
Ovvero?
“L’idea che la Cina debba investire maggiormente nel mercato interno. Perché prevede che il clima internazionale diventerà più ostile e, di conseguenza, pur restando connessa con la globalizzazione, deve essere il più autosufficiente possibile. Questo può avere implicazioni nel lungo termine sulle catene di approvvigionamento globali ma, nello stesso tempo, abbiamo visto muoversi sia Usa che Europa verso la diversificazione. C’è la differenza che, di solito, per come è strutturata la governance cinese, gli obiettivi per Pechino sono più facilmente raggiungibili rispetto a realtà più complesse come l’Unione europea”.
Possibili ripercussioni nel breve periodo?
“La Cina ha ancora bisogno dei mercati esteri e vuole che entrino di più nel Paese, in modo da far crescere ulteriormente il mercato interno. Sul lungo termine le variabili sono infinite ma, in linea di massima, non dovremmo assistere a un isolamento quanto a una progressiva autosufficienza”.
Da un Paese europeo all’altro, il Regno Unito post-Brexit guarda ai mercati esteri per cercare un nuovo posizionamento strategico. Dopo il Giappone potrebbe allacciare rapporti anche con la Cina? Quanto pesa il caso Hong Kong?
“Uscendo dall’Unione europea, la Gran Bretagna ha iniziato a guardarsi intorno. In Asia esiste un’unione commerciale di cui il Regno Unito vuole entrare a far parte. Per far questo, Londra deve fare accordi bilaterali con tutti i Paesi che lo compongono e il Giappone è stato il primo. La Cina non fa parte di questo gruppo e, inoltre, le relazioni fra Londra e Pechino stanno peggiorando. Il Regno Unito ha una linea di influenza più diretta rispetto agli Stati Uniti e ad altri Paesi. Inoltre, all’interno della politica interna britannica, si sta sviluppando un gruppo di conservatori che è particolarmente negativo verso la Cina. Per cui la relazione non sembra andare verso un percorso positivo, tanto più in seguito a quanto accaduto a Hong Kong”.