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IL FILO INVISIBILE TRA PECHINO E SANTA SEDE

“Esprimo la mia vicinanza al popolo cinese in questo momento difficile a causa del disastro del traghetto sullo Yangtze. Prego per le vittime, per le loro famiglie, e per tutti coloro che sono coinvolti nel lavoro di salvataggio”. La solidarietà di Papa Francesco alle vittime della tragedia andata in scena nelle acque del Fiume Azzurro è passata quasi inosservata durante l’udienza generale. Non è la prima volta che il Pontefice guarda commosso alle catastrofi, naturali e accidentali, che troppo spesso insanguinano la Terra. Questa volta, però, dietro il messaggio di Bergoglio potrebbe non esserci solo la doverosa vicinanza a una nazione che piange decine di vittime ma l’ennesimo passo in avanti verso il pieno riallaccio delle relazioni politiche e diplomatiche con Pechino. E’ un percorso accidentato quello verso il recupero dei rapporti tra Cina e Vaticano, durante il quale non sono mancati lunghi periodi di silenzio e gelo. Ora, grazie all’instancabile attività del Papa “venuto dalla fine del mondo” e alle recenti aperture giunte dal regime di Xi Jinping, le cose potrebbero cambiare.

I segnali di un rinnovato dialogo tra la Santa Sede e Pechino sono diversi. A cominciare dall’interesse per l’Asia mostrato sinora da Bergoglio e testimoniato dai viaggi apostolici in Sri Lanka, Corea e Filippine. Aree geografiche che inevitabilmente risentono dell’influenza politica esercitata dal grande Stato socialista, il quale sta giocando un ruolo di primo piano nella gestione di relazioni diplomatiche difficili, come quelle fra Seul e Pyongyang. E non è un caso che Francesco, in quella occasione, abbia invocato, via telegramma, pace e benessere per il popolo cinese, vista anche l’autorizzazione concessa da Pechino a sorvolare il proprio territorio. Senza dimenticare la scelta, operata in occasione della via Crucis del 2013, di affidare a due seminaristi cinesi il compito di portare la Croce o quella di non incontrare il Dalai Lama, in visita a Roma lo scorso dicembre, per non urtare la sensibilità di Pechino. Insomma il dossier sui rapporti fra i due Stati continua a essere tra le priorità del Santo Padre, preoccupato per le condizioni dei cristiani cinesi, costretti a professare segretamente la propria fede se non vogliono aderire alla Chiesa patriottica.

A tessere questo filo fragile e invisibile tra Vaticano e Cina c’è il segretario di Stato Pietro Parolin, che già se ne occupò durante il pontificato di Benedetto XVI, quando ricopriva il ruolo di viceministro degli Esteri della Santa Sede. Ratzinger aveva particolarmente a cuore i rapporti con il grande Paese asiatico: nel 2007 in una lettera inviata a Pechino spiegava che la “Chiesa non vuole cambiare la struttura dello Stato” e proponeva una collaborazione con il governo nella scelta dei vescovi, sia pur rimarcando che la Sposa di Cristo vorrebbe “sentirsi libera” nella nomina dei suoi pastori. Poco prima di rinunciare al ministero petrino tra l’altro Benedetto XVI, che aveva da poco inaugurato il suo account Twitter, aveva manifestato la volontà di “cinguettare” in cinese, per mostrare vicinanza a tutti quei fedeli costretti a confrontarsi con la dittatura comunista. Francesco, che appena eletto si era detto pronto a visitare la “Nazione della Seta”, sta dunque cercando di portare avanti l’opera del suo predecessore.

Una partita difficile da vincere in tempi rapidi visto che non sono ancora stati superati i due ostacoli principali: i rapporti diplomatici in essere tra Vaticano e Taiwan e, soprattutto, la querelle legata alla nomina dei vescovi. In Cina esiste una Chiesa ufficiale (l’associazione patriottica cattolica cinese) soggetta al governo centrale e con presuli nominati al suo interno e una Chiesa “sotterranea”, fedele a Roma e al Papa. Quest’ultima, che secondo Human Rights Watch e altre associazioni conterebbe 16 milioni di fedeli e circa 150mila conversioni ogni anno, è ancora oggetto di persecuzioni e censure in diverse aree del Paese. Basti pensare a quanto accaduto a mons. Pietro Liu Guandong, vescovo emerito della Prefettura apostolica di Yixian, che ha passato 28 anni in carcere per non aver mai voluto rescindere il legame col Pontefice. Le autorità cinesi temono possibili interferenze della Chiesa nella vita della società. I valori di libertà ed emancipazione proposti dal cattolicesimo sono considerati inaccettabili. In più Pechino non vuole che a influenzare i suoi cittadini sia un altro Stato, nonostante l’atipicità del Vaticano, diventato nazione col solo scopo di dare visibilità e peso internazionale alla Cattedra di Pietro.

L’ultima soluzione che il Vaticano sta provando a mettere sul piatto per uscire dall’impasse è il “modello vietnamita”, cioè la nomina dei presuli concordata da Santa Sede e Hanoi. Vi ha fatto riferimento, in una recente intervista a Phoenix Tv di Hong Kong, Padre Federico Lombardi. “Le relazioni con il Vietnam con il tempo sono migliorate – ha spiegato il portavoce della Santa Sede – perché adesso il Papa ha ricevuto qui in Vaticano la visita dell’autorità più alta della repubblica del Vietnam. Prima questo non accadeva. Adesso c’è un rappresentante della Santa Sede incaricato per il Vietnam, che non è residente, ma lui può viaggiare e visitare la Chiesa”. E tuttavia, ha ricordato, “il Vietnam non è la Cina”. Come a dire che la strada per chiudere la più importante partita della diplomazia ecclesiastica è ancora lunga e impervia.

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