Non se n’era mai andata la tensione da Hong Kong. Il coronavirus aveva forse limitato le maree umane, costretto a rivedere le forme del dissenso ma certamente non placato l’animo popolare, furioso nei confronti dell’autorità locale, guidata da Carrie Lam, e contro quella centrale di Pechino. Al rallentamento della pandemia ha immediatamente corrisposto una ripresa dell’intensità delle manifestazioni, con sit-in dei dimostranti (soprattutto nei centri commerciali) e con qualche battaglia in Parlamento, soprattutto in merito alla discussione sulla possibile legge di vilipendio all’inno nazionale. Un dibattito che aveva prodotto scene di disordini all’interno dell’aula parlamentare. Ora, però, i manifestanti sono tornati in strada: ufficialmente contro la nuova legge sulla sicurezza, ma il sentimento anti-Cina ha trovato sfogo anche in virtù degli arresti praticati durante il lockdown.
Manifestazioni e cariche
Gas lacrimogeni, gente in strada, polizia schierata e non meno di 120 arresti. A Hong Kong si è rivisto il dissenso attivo, poco dopo la conferenza stampa in cui il ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, ha fatto sapere che la legge sulla sicurezza, fortemente avversata dal Porto profumato, andrà approvata “senza il minimo ritardo”. Un annuncio sufficiente a far dimenticare il Covid-19 e a far ricominciare gli scontri in strada, con ritrovi non autorizzati a Causeway Bay e al Southorn Playground a Wanchai. Luoghi di partenza delle marce, contrastate dalla Polizia, intervenuta per ripristinare l’ordine con cariche nei confronti dei manifestanti. Al termine delle quali, gli arresti potrebbero essere stati addirittura superiori, forse anche 150. La prima giornata di fuoco per le strade della metropoli, forse l’inizio reale della nuova stagione della lotta per la democrazia.