Dallo scoppio di un conflitto all’inizio di un’emergenza umanitaria, solitamente, non trascorre molto tempo. Specie se la situazione del contesto geografico e politico fosse già abbondantemente compromesso. Il caso della Striscia di Gaza è un esempio piuttosto lampante di un quadro sociale precario che, con l’intensificazione di diatribe geopolitiche, finisce per trasformarsi in una catastrofe totale per la popolazione. Anzi, per la popolazione civile maggiore al mondo in relazione al proprio territorio, con più di 2 milioni di abitanti in 360 chilometri quadrati circa. Una porzione di territorio che, a tutti gli effetti, è una striscia. Esigua, compressa, in mano a un gruppo al governo che, come iniziativa, ha deciso di sferrare un attacco oltre confine contro Israele, dando il là a una reazione che, come ai tempi di Piombo fuso, ha tolto alla popolazione civile ogni barriera di protezione.
Emergenza totale a Gaza
Abbastanza per trascinare i cittadini della Striscia di Gaza in un’emergenza totale, tra carenza di assistenza sanitaria, raid aerei e minacce di invasione via terra e difficoltà nell’ingresso degli aiuti umanitari. Questi ultimi, di fatto, l’unico mezzo di sostentamento per quella parte di popolazione che ancora si trova nelle zone nevralgiche del conflitto, in primis a Rafah. Per loro, un’esposizione continua agli effetti diretti della guerra e, chiaramente, a quelli indiretti.
Prima di tutto l’emergenza alimentare, visto che rifornirsi di viveri in modo continuativo è sempre più complicato all’interno della Striscia. “C’è una zona chiamata Al-Mawasi – è la testimonianza di un membro del Team di Emergenza di Azione Contro la Fame sul posto -, che è un quartiere, e lì era dove iniziava la zona umanitaria… E ora lì è dove ha inizio la nuova evacuazione”. Il che significa come nessun luogo della Striscia possa dirsi al riparo dalle scorie del conflitto, siano esse effettive o logoranti a lungo termine.
L’esodo dei profughi
Lo stesso operatore ha raccontato di come, al momento, non vi sia “nessun edificio sicuro. Io penso ai nostri lavoratori che ancora una volta prendono i loro figli, molti dei quali ancora molto piccoli, li portano in spalla e iniziano a camminare. Molti di loro hanno già dovuto evacuare 8 o 9 volte, fino ad arrivare a Rafah. Hanno lasciato le loro case, le loro macchine perché le strade erano intasate”. Basti pensare che, solo a seguito del singolo ordine di evacuazione del 6 maggio scorso, ben 900 mila persone si sono messe in cammino in massa (dati Onu), rendendo estremamente complicato il mantenimento delle condizioni igienico-sanitarie nei punti di aggregazione.
La stessa AcF si è detta preoccupata per la situazione dei profughi, così come di quella relativa a chi, tutt’oggi, è costretto nelle zone nel mirino delle forze armate israeliane. L’organizzazione umanitaria ha denunciato la potenziale forza devastatrice di un’operazione militare via terra, sia per la folta presenza di civili che per l’impossibilità di imbastire un piano di evacuazione praticabile.
Appello internazionale
A ogni modo, nonostante la crisi in atto che vede oltre 1 milione di persone soffrire la fame o essere a rischio alimentare, Azione contro la Fame ha precisato che continuerà a “lavorare instancabilmente per fornire assistenza umanitaria a coloro che ne hanno più bisogno e siamo pronti ad adattarci e a rispondere alle mutevoli esigenze nel mezzo di questa crisi senza precedenti”. Ciò non toglie che, ribadendo il proprio impegno, colga l’occasione per lanciare un appello a livello internazionale, affinché vengano intraprese “azioni urgenti per porre fine alla crisi a Rafah e in tutta la Striscia di Gaza. Non possiamo permettere che questa situazione umanitaria peggiori ulteriormente”.