Prosegue il viaggio apostolico in Messico di Papa Francesco. Il Pontefice è arrivato a Morelia, capitale dello Stato del Michoacan, a 210 km da Città del Messico e al centro geografico del Paese, luogo segnato anche da gravi problemi di criminalità e narcotraffico.
L’aereo del Santo Padre è atterrato all’aeroporto “General Francisco J. Mujica” della città messicana. Da qui il Papa si è imbarcato subito in elicottero per raggiungere la città, e quindi con la papamobile aperta lo stadio “Venustiano Carranza”, dove ha celebrato la messa con i sacerdoti e i religiosi. Al suo arrivo il Papa è stato accolto dall’arcivescovo della città, Alberto Suarez Inda, che lui stesso ha creato cardinale.
Un proverbio recita: “Dimmi come preghi e ti dirò come vivi, dimmi come vivi e ti dirò come preghi”. Francesco parte da questa massima per introdurre la sua riflessione. “Mostrandomi come preghi, imparerò a scoprire il Dio vivente, e mostrandomi come vivi, imparerò a credere nel Dio che preghi, perché la nostra vita parla della preghiera e la preghiera parla della nostra vita”. Il pregare è un’azione che si impara come il parlare, il camminare o l’ascoltare. “La scuola della preghiera è la scuola della vita e la scuola della vita è il luogo in cui facciamo scuola di preghiera”.
Ai discepoli Gesù ha fatto conoscere il mistero della sua vita. “Mostrò loro mangiando, dormendo, sanando, predicando, pregando che cosa significa essere Figlio di Dio. Li invitò a condividere la sua vita, la sua intimità e, mentre stavano con Lui, fece loro toccare nella sua carne la vita del Padre. Fa loro sperimentare nel suo sguardo, nel suo camminare, la forza, la novità di dire: ‘Padre nostro’”. In Cristo queste parole hanno “il sapore della vita, dell’esperienza dell’autenticità. Egli ha saputo vivere pregando e pregare vivendo, dicendo: Padre nostro”.
Oggi ci invita a fare lo stesso. La nostra prima chiamata è fare esperienza dell’amore misericordioso del Padre “nella nostra storia. La nostra prima chiamata è quella ad imparare a dire Padre nostro”. Al clero Francesco rivolge un monito: “Guai a noi se non la condividiamo, guai a noi se non siamo testimoni di quello che abbiamo visto e udito, guai a noi. Non siamo né vogliamo essere dei funzionari del divino, non siamo né desideriamo mai essere impiegati di Dio, perché siamo invitati a partecipare alla sua vita, siamo invitati a introdurci nel suo cuore, un cuore che prega e vive dicendo: Padre nostro”.
La missione di ogni consacrato è dire con la propria vita Padre nostro. “A questo Padre ci rivolgiamo tutti i giorni pregando: non lasciarci cadere in tentazione. Gesù stesso lo fece”. Quale può essere una delle tentazioni che potrebbe assalire i sacerdoti? “Credo che potremmo riassumerla con la parola rassegnazione”, una delle armi preferite del demonio. Questa “ci paralizza e ci impedisce non solo di camminare, ma anche di fare la strada; non soltanto ci spaventa, ma ci trincera nelle nostre sacrestie e apparenti sicurezze; non soltanto ci impedisce di annunciare, ma ci impedisce di lodare”.
Per questo ogni giorno preghiamo: “Padre Nostro, non lasciarci cadere nella tentazione”. Quando siamo tentati, Dio fa appello alla nostra memoria: ci ricorda che “non tutto ha avuto inizio con noi, non tutto terminerà con noi; per questo, quanto bene ci fa recuperare la storia che ci ha portato fin qui”. Il pensiero di Bergoglio va a Vasco Vásquez de Quiroga, che di se stesso disse: “Mi strapparono dalla magistratura e mi posero alla pienezza del sacerdozio per merito dei miei peccati. Me, inutile e interamente inabile per l’esecuzione di una tanto grande impresa; me, che non sapevo remare, elessero primo Vescovo di Michoacán”.
“Con voi – prosegue il Papa – desidero fare memoria di questo evangelizzatore. La realtà vissuta dagli indios Purhépechas descritta da lui come “venduti, vessati e vagabondi per i mercati a raccogliere i rifiuti gettati a terra”, mosse la sua vita a realizzare diverse iniziative che fossero di respiro di fronte a molte realtà ingiuste.” Il dolore della sofferenza dei suoi fratelli divenne preghiera e la preghiera si fece risposta concreta. Questo gli guadagnò tra gli indios il nome di “Tata Vasco”, che in lingua purépechas significa: papà”.
La preghiera di ogni consacrato, religioso, sacerdote, sia sempre “Padre, papà, abbà, non lasciarci cadere nella tentazione della rassegnazione, non lasciarci cadere nella tentazione della perdita della memoria, non lasciarci cadere nella tentazione di dimenticarci dei nostri predecessori che ci hanno insegnato con la loro vita a dire Padre Nostro”.
Il Santo Padre si è recato poi in visita alla Cattedrale di Morelia. In sagrestia ha salutato 14 Rettori di Università messicane e 6 Leader di altre confessioni cristiane. In Cattedrale è stato accolto da centinaia di bambini, ai quali il Papa ha rivolto un piccolo discorso. Ha chiesto di pregare per le famiglie, gli amici, i nonni, i nemici e per tutte le suore e sacerdoti che li accompagnano nel loro cammino di fede. Davanti alla basilica, il Presidente della Municipalidad di Morelia gli ha consegnato le chiavi della Città.
Francesco ha lasciato quaindi la Cattedrale per trasferirsi in papamobile allo stadio “José Maria Morelos y Pavón” per l’incontro con i giovani, che inizia con un momento di festa con canti e danze e prosegue con gli indirizzi di saluto del Card Alberto Suárez Inda, Arcivescovo di Morelia, e di S.E. Héctor Luis Morales Sánchez, Vescovo di Ciudad Nezahualcóytl e incaricato della Pastorale giovanile. Poidue giovani porteranno la loro testimonianza. Dopo la consegna dei doni e un momento di preghiera, Papa Francesco parlerà agli oltre centomila giovani. Durante le testimonianze dei ragazzi, Bergoglio non rimane certo con le mani ferme e prende appunti, per poter rispondere al meglio alle domande che i giovani gli hanno rivolto.
Francesco si trova a suo agio con la gioventù. Con gioia benedice e saluta i ragazzi che, a migliaia, da ogni parte del Messico, sono venuti ad incontrarlo. “Quando sono arrivato in questa terra sono stato accolto con un caloroso benvenuto e ho constatato in quello stesso momento qualcosa che intuivo da tempo: la vitalità, l’allegria, lo spirito festoso del Popolo messicano – dice ridendo il Papa -. Adesso, dopo avervi ascoltato, ma specialmente dopo avervi visto, constato nuovamente un’altra certezza: uno dei tesori più grandi di questa terra messicana sono i suoi giovani. Sì, siete voi la ricchezza di questa terra”. Bergoglio aveva già detto questa frase proprio al suo arrivo a Città del Messico, nell’indirizzo di saluto al Presidente Nieto. Ci tiene poi a sottolineare: “Non ho detto la speranza di questa terra, ho detto: la ricchezza”.
Il Pontefice sa bene che ai giovani non dev’essere rubata la speranza, e ricorda loro che non la si può vivere “se prima non si riesce a stimarsi, se non si riesce a sentire che la propria vita, le proprie mani, la propria storia hanno un valore. La speranza nasce quando si può sperimentare che non tutto è perduto”. Ogni giovane dovrebbe ripetere a se stesso: “Non tutto è perduto. Valgo, e valgo molto”. Le speranze vengono minacciate soprattutto dai “discorsi che ti svalutano, che ti fanno sentire di seconda classe. Quando senti che a nessuno importa di te o che sei lasciato in disparte. Quando senti che se ci sei o non ci sei è la stessa cosa”.
Tutto ciò annienta le persone e “apre la porta a tanto dolore”. Ma la speranza viene meno anche quando “ti mascheri di vestiti alla moda, o quando diventi prestigioso, importante perché hai denaro, ma in fondo il tuo cuore non crede che tu sia degno di affetto, degno di amore. La principale minaccia è quando uno sente che i soldi gli servono per comprare tutto, compreso l’affetto degli altri. La principale minaccia è credere che perché hai una bella macchina sei felice”.
Ma “voi siete la ricchezza del Messico, la ricchezza della Chiesa”. Può essere difficile sentirsi una ricchezza “quando ci troviamo esposti alla perdita di amici e familiari” a causa del narcotraffico, delle droghe e di organizzazioni criminali che seminano il terrore in ogni luogo. “E’ difficile sentirsi la ricchezza di una nazione quando non si hanno opportunità di lavoro dignitoso, possibilità di studio e di preparazione, quando non si vedono riconosciuti i diritti”. È difficile sentirsi una ricchezza quando, per il solo fatto che sì è giovani, questi vengono impiegati “per scopi meschini, seducendoli con promesse che alla fine nono sono tali”.
“Eppure, malgrado tutto questo, non mi stanco di ripeterlo: voi siete la ricchezza del Messico. Non pensate che vi dica questo perché sono buono, o perché sono un esperto – prosegue il Papa -. Vi dico questo perché come voi credo in Gesù Cristo. È Lui che rinnova continuamente in me la speranza. Vi dico questo perché in Gesù ho incontrato Colui che è capace di accendere il meglio di me stesso”. È solo grazie a Cristo che possiamo fare strada, ogni volta possiamo ricominciare da capo”.
Solo l’amicizia con Gesù da il coraggio di dire: “non è vero che l’unico modo di vivere, di essere giovani, è lasciare la vita nelle mani del narcotraffico o di tutti quelli che la sola cosa che stanno facendo è seminare distruzione e morte”. Il vivere per i giovani non sia quello della povertà e dell’emarginazione; emarginazione dalle opportunità, emarginazione dagli spazi, emarginazione da formazione ed educazione”.
“Mi avete chiesto una parola di speranza: quella che ho da darvi si chiama Gesù Cristo. Quando tutto sembra pesante, quando sembra che ci caschi il mondo addosso, abbracciate la sua croce, abbracciate Lui e, per favore, non staccatevi mai dalla sua mano, non allontanatevi mai da Lui”. Con Gesù è possibile vivere in pienezza l’essere giovani, è possibile credere che vale la pena dare il meglio di sé, essere sale e luce tra gli amici, nel quartiere, in comunità”. Poi, un appello a tutti i giovani del mondo: “Da parte di Gesù vi chiedo di non lasciarvi escludere, non lasciarvi disprezzare, non lasciarvi trattare come merce. Certo, è probabile che non avrete la macchina ultimo modello, non avrete il portafoglio pieno di soldi, ma avrete qualcosa che nessuno potrà togliervi: l’esperienza di sentirsi amati”.
Dio Padre ancora oggi vi invita a costruire un santuario, che non è un luogo fisico, bensì una comunità, un santuario chiamato parrocchia, un santuario chiamato Nazione. La famiglia, il sentirci cittadini, è uno dei principali antidoti contro tutto ciò che ci minaccia. Non per rifugiarci, non per chiuderci, anzi, per uscire ad invitare altri, per annunciare a tutti che essere giovani in Messico è la più grande ricchezza” e non può essere barattato con gioie passeggere..
Gesù non ha mai voluto sicari, ma discepoli: “Egli mai ci manderebbe a morire – conclude Francesco -, ma tutto in Lui è invito alla vita. Una vita in famiglia, una vita in comunità; una famiglia e una comunità a favore della società. Guardate Gesù Cristo, Colui che smentisce tutti i tentativi di rendervi inutili, o meri mercenari di ambizioni altrui”.