C’è rivoluzione e rivoluzione. Quella fatta sradicando i sistemi e quella accompagnata secondo una logica di cambiamento reale, nel modo di vedere prima ancora che in quello di agire. La musica di Fabrizio De André era fatta appositamente per le parole. E la chitarra nient’altro che uno strumento di costruzione, col tratto delicato delle note ad agire come la punta di una matita colorata. Magari proprio quelle della Faber Castell, che De André prediligeva e che ne avrebbero creato il soprannome. Negli ultimi venticinque anni, esattamente quelli trascorsi dalla sua morte, il mito non si è sgonfiato. Semmai l’opposto. Mentre i decenni passano a ritmo furioso, etichettando questo o quel genere musicale come espressione del cambiamento, più di una generazione trova ancora conforto nelle allegorie di pescatori e anime fragili. Forse perché, nonostante tutto, le anime sono più fragili ora che a fine anni Novanta, quando inquadrare gli ultimi era fin troppo semplice. Così come oggi lo è fingere di non esserlo.
Fabrizio De André, impiegati di ieri e di oggi
Il venticinquesimo anniversario della scomparsa del cantautore ligure coincide con un nuovo tour della “PFM canta De André”, così come della rimessa in auge dell’album “Storia di un impiegato” da parte di Cristiano, primogenito di Fabrizio. Una scelta non casuale, vista la storia narrativa stessa delle canzoni, in un crescente di insoddisfazione prima e ribellione poi. Quella che per Faber era una sorta di descrizione dei suoi ideali attraverso le disillusioni del fondo della scala sociale, per il figlio diventa l’occasione per presentare di nuovo suo padre, richiamando la società del Terzo Millennio a una rilettura della storia, se non con il cuore, perlomeno con l’occhio del presente. Per scoprire, forse, che quella visione rivoluzionaria, così fervente negli anni Settanta, è letta ora con lo sguardo distaccato della Storia. Critico giusto il tempo di analizzare, con la presunzione dei tempi moderni, il senso di abbandono degli ultimi di allora.
Una lente sull’oggi
Ma se l’allegoria serve a qualcosa, è proprio a proiettare l’uomo nel tempo e nello spazio, anche se la letteratura fosse quella di un decennio passato. Per questo, in un momento storico in cui l’investitura del genere musicale in grado di far saltare il banco dell’ordinarietà oscilla su stili più scenografici che profondi, Fabrizio De André è una lente sul presente. Perché sarà pure vero che l’impiegato non è più quello di allora, modello standardizzato di una società di ricchi despoti e poveri ingrigiti, ma è probabile che, anche oggi, qualcuno “aspetti la pioggia per non piangere da solo”. Con la differenza che, stavolta, le fragilità sono mitigate dai cristalli rigidi degli schermi, dove l’apparenza inganna quel tanto che basta da mitigare l’insoddisfazione. Almeno per chi guarda da fuori.