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L’Everest assediato: emergenza in alta quota

L’antropizzazione, per sua natura, punta a raggiungere vette sempre più elevate. E non solo, purtroppo, in senso figurato. La naturale tendenza dell’uomo alla conquista di mete apparentemente fuori portata ha da sempre contraddistinto la storia del genere umano che, proprio grazie a questa sua indole, è stato in grado di evolversi e adattarsi alle sfide poste dalla Storia. Il punto, però, è proprio questo: quando è la Storia stessa a concedere all’uomo gli strumenti per piegare lo spirito di avventura a quello dell’apparenza e della massificazione del viaggio, dentro e fuori di sé. A

ccade così che persino la montagna più alta del mondo diventi territorio di una conquista che di alpinistico ha ben poco. Prova ne sia che, sull’Everest, per l’ascesa finale occorra realmente mettersi in coda. Dall’Hillary Step, in piena zona della morte, fino a quota 8.848. Scene simili a quelle che, a fine Ottocento, si vedevano sul Chilkoot Pass, nel Klondike. Con la sottile differenza che, oltre quel passo, si andava a cercare l’oro.

Everest, code in vetta

Le scene sono paradossali ma, purtroppo, tutt’altro che inedite. Già negli anni scorsi era stata segnalata l’eccessiva commercializzazione delle salite in vetta all’Everest, una pratica che, di fatto, aveva aperto i versanti della più alta montagna del mondo a chiunque avesse avuto fondi e coraggio a sufficienza per superare le icefalls e seguire gli sherpa fino alla fine della salita. L’ultima istantanea risale solo a pochi giorni fa, quando la cresta del passo Hillary appariva non troppo diversa dall’androne di un ufficio pubblico. Il tutto, però, in uno spazio decisamente più compresso e instabile tanto che, secondo gli esperti, sarebbe stato proprio il peso dei circa 600 escursionisti in coda a provocare il crollo di un cornicione di ghiaccio e la conseguente morte di due persone.

Meta prediletta

Il “traffico” in alta quota è un problema in sé, certo, ma anche una miccia di innesco. Perché l’intensificazione delle ascese significa l’aumento delle persone sui fianchi della montagna e, di conseguenza, l’incremento della percentuale di rischio. Anche perché, spesso, a tentare l’ascesa sono escursionisti piuttosto che alpinisti, letteralmente trascinati dagli sherpa oltre le insidie del Khumbu e, successivamente, sui passaggi più elevati dell’Everest. I quali, a detta degli alpinisti più esperti, risultano meno difficili rispetto a quelli di altri popolari ottomila e, probabilmente per questo, più “predisposti” ad accogliere aspiranti scalatori a digiuno di alpinismo in alta quota.

Il che, tuttavia, non riduce il rischio, anzi. La presenza massiccia e contemporanea di scalatori innalza pericolosamente la possibilità di cedimenti della roccia o dei depositi di neve, così come i tempi di permanenza in alta quota, con conseguente pericolo crescente di mal di montagna e altre conseguenze della più scarsa presenza di ossigeno.

Turismo in alta quota

È chiaro che, in un contesto simile, a rimetterci sia innanzitutto la montagna. O meglio, l’ambiente montano. Perché più scalatori significa più campi e, per estensione, maggiori depositi di rifiuti. Un dettaglio che tanto dettaglio non è, visto che in un ecosistema che è di fatto una nicchia ecologica, anche una percentuale ridotta di inquinamento può essere sufficiente a destabilizzare irreparabilmente gli equilibri naturali. Senza contare che, come ha più volte avvisato Rehinold Messner, ridurre l’Everest a meta commerciale non consente di trasformare i fruitori in alpinisti, per loro natura rispettosi dell’ambiente e consapevoli dei rischi. Piuttosto, in turisti a caccia di emozioni. Mitigate però dalla pessima idea della commercializzazione delle imprese estreme.

Damiano Mattana

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